Il grande scollamento: globalizzazione in crisi e rischio balcanizzazione
Le crisi di alcuni degli snodi vitali del commercio internazionale come i canali di Suez e di Panama confermano la fragilità di catene di approvvigionamento troppo lunghe e complesse. A Suez gli attacchi terroristici degli Houthi costringono petroliere e supercargo a circumnavigare l’Africa, allungando i tempi e aumentando i costi di traporto. E già a marzo 2021 l’incidente della nave cargo EverGiven ‒ 400 metri di lunghezza e 220.000 tonnellate di stazza – aveva bloccato per sei giorni il canale e condizionato per mesi le catene di approvvigionamento di molti settori in tutto il mondo. A Panama la carenza di precipitazioni ha abbassato il livello dell’acqua e diminuito il pescaggio massimo consentito, cioè la misura della parte di un’imbarcazione che rimane immersa durante la navigazione, costringendo le navi a ridurre il peso trasportato fino al 25% del totale.
La vulnerabilità della supply chain, e quindi del sistema economico alla base della globalizzazione, era emerso chiaramente anche durante il periodo critico della pandemia. E negli ultimi anni la frequenza di shock esterni – come crisi finanziarie locali che diventano sistemiche, colpi di stato e tensioni politiche in paesi ricchi di materie prime strategiche, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, la guerra in Medio Oriente scaturita dall’attacco terroristico di Hamas a Israele ‒ è aumentata e ha contribuito ad aggravare la crisi della globalizzazione.
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Ma gli shock esterni non sono l’unico elemento che sta mettendo in seria difficoltà l’integrazione economica internazionale. Vi sono altre forze di cambiamento che stanno trasformando profondamente le relazioni internazionali.
Alcune forze sono di natura economica e tecnologica e, dopo decenni di aggressiva delocalizzazione produttiva, spingono alla riconfigurazione delle catene globali del valore e alimentano la tendenza a reshoring e nearshoring. Altre forze scaturiscono da dinamiche di politica interna che portano a maggiore chiusura e protezione degli interessi nazionali. Infine, crescenti forze di natura geopolitica frenano la globalizzazione. Protezionismo commerciale, restrizioni ai movimenti di capitali e controllo degli investimenti, interventi sulla valuta e accesso ai sistemi di pagamento, sanzioni economiche, sono spesso utilizzati come armi non convenzionali per perseguire finalità geopolitiche. Lo stesso accade con la gestione di flussi di migranti e rifugiati, con le forniture di materie prime strategiche, energia e risorse alimentari, con l’accesso e lo sfruttamento dell’acqua, con la condivisione di tecnologia e di ricerca medico-scientifica, con gli investimenti in sport e cultura.
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La globalizzazione moderna ha prodotto un livello di integrazione internazionale senza precedenti nel corso della storia. Pur tra eccessi e contraddizioni e mostrando limiti e fragilità, il processo di internazionalizzazione che ha inizio al termine del secondo conflitto mondiale ha determinato un forte aumento di benessere in gran parte del mondo, migliorando la qualità di vita e facendo uscire miliardi di persone dalla povertà, ha consentito un enorme progresso scientifico, ha favorito una significativa riduzione del livello dei conflitti. Con la fine della guerra fredda la globalizzazione si è ulteriormente allargata e rafforzata e si è diffusa la convinzione che potesse garantire una crescita economica continua e favorire la fine di ogni contrapposizione. Tale aspettativa si è rivelata errata.
Da diversi anni la globalizzazione è in crisi e non sembra più essere ‒ come appariva fino a qualche tempo fa ‒ inarrestabile e irreversibile. Molto dipende dal cambiamento radicale del rapporto tra Stati Uniti e Cina: il legame virtuoso degli ultimi decenni è oggi diventato di rivalità strategica e, nonostante la recente riapertura del dialogo tra Washington e Pechino, il decoupling (o quanto meno il de-risking) è in fase avanzata in diversi ambiti. Ma soprattutto sembrano essersi inceppati alcuni dei motori che avevano spinto la globalizzazione e si è indebolita la cornice politica che l’aveva favorita. In molti campi è in corso un progressivo “scollamento” che sta mutando profondamente le relazioni internazionali e dividendo il mondo in blocchi.
Non siamo quindi alla vigilia di un cambio di egemonia mondiale, come accaduto altre volte nel corso della storia, né all’inizio di una nuova guerra fredda tra due blocchi contrapposti, visto che Cina e Stati Uniti non sembrano avere ‒ per diversi motivi – la necessaria forza di attrazione. La crisi della globalizzazione sta producendo un mondo diviso in tanti blocchi, all’interno dei quali esiste un certo grado di collaborazione ma che verso l’esterno tendono a erigere barriere. Ne segue una frenata nella crescita di scambi commerciali e investimenti internazionali, un calo nella circolazione di persone, idee e conoscenza, un rallentamento nella condivisione di tecnologie e innovazioni, una riduzione di cooperazione internazionale.
Lo scollamento è particolarmente preoccupante alla luce delle sempre più numerose sfide globali: problemi che riguardano l’intero pianeta quali cambiamento climatico ed emergenze sanitarie, guerre e flussi migratori, proliferazione nucleare e terrorismo internazionale, fame e povertà estrema, crisi finanziarie sistemiche e aumento delle diseguaglianze, difficoltà nel reperimento stabile di energia e materie prime, nuovi dilemmi sollevati da sviluppo tecnologico e progresso scientifico. Peraltro, il crescente scollamento ostacola dialogo e comunicazione tra paesi e aumenta esponenzialmente il rischio di incomprensioni, tensioni e scontri (anche militari).
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In questo nuovo mondo frammentato è possibile cogliere tre grandi tendenze di fondo. La prima è una forte regionalizzazione. Accordi, cordate, alleanze locali e regionali diventano più importanti anche se rimangono spesso intrecciate con alcuni dei legami prodotti dalla globalizzazione. La seconda è la crescente prevalenza della politica sull’economia. Il ruolo dello Stato aumenta a scapito di quello dei mercati, gli interessi geopolitici tendono a prevalere su quelli economici, la sicurezza nazionale condiziona le decisioni di politica economica. La terza tendenza è l’aumento di volatilità nelle relazioni internazionali, cui contribuisce la diffusione di Paesi “battitori liberi” che aspirano all’autonomia strategica e le cui forti ambizioni geopolitiche sono spesso legate all’ascesa di un leader con tratti autoritari o populisti.
A fronte del crescente scollamento vi sono anche alcune nuove potenziali frontiere della globalizzazione – quali la regione Artica, gli Oceani e il Subacqueo, lo Spazio, l’Economia Digitale – che offrono enormi opportunità, non solo di crescita economica, progresso scientifico e innovazione tecnologica, ma anche in termini di possibile rilancio della cooperazione internazionale. A condizione che le “frontiere” non diventino “fronti” di competizione e terreno di scontro tra Paesi.
Non è semplice prevedere a quale livello di frammentazione condurrà il processo di scollamento attualmente in corso. Che potrebbe innescare una ri-globalizzazione, cioè la riconfigurazione delle relazioni internazionali secondo nuovi e diversi criteri economici e geopolitici, oppure la de-globalizzazione, cioè un arretramento del processo di integrazione internazionale al punto da determinarne la sostanziale fine.
Lo scenario peggiore è uno in cui l’eccessiva frammentazione apra la strada a un processo di forte disgregazione, disordine e instabilità in cui le relazioni tra blocchi di paesi sono ridotte ai minimi termini. La “balcanizzazione” del mondo avrebbe enormi costi economici in termini di minor efficienza, innovazione e crescita. Ma i rischi vanno ben oltre. Minor comunicazione e dialogo tra “pezzi” di mondo aumenterebbe le possibilità di incomprensione e scontro. E la frammentazione potrebbe facilmente diventare caos geopolitico.
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Alla luce dei conflitti attualmente in corso il rilancio della globalizzazione appare irrealizzabile. Tuttavia una speranza è alimentata dal fatto che in passato, dopo fasi particolarmente buie ‒ si pensi al periodo di chiusura del Medioevo, alla distruzione della seconda guerra mondiale, alle divisioni della guerra fredda ‒ il mondo ha saputo ritrovare la luce. E lo ha sempre fatto seguendo una strada di crescente apertura e libertà di circolazione di merci, capitali, persone, idee e costruendo istituzioni volte ad aumentare il livello di dialogo e collaborazione internazionale.
In un mondo aperto i benefici sono complessivamente superiori agli svantaggi. E le tante e sempre più pressanti sfide mondiali possono essere affrontate con successo solo attraverso la cooperazione internazionale (e anzi non affrontarle può essere fatale per tutto il pianeta).
È vero che la globalizzazione moderna ha favorito eccessi, mostrato limiti, prodotto distorsioni. Ma non è evidente che esistano modelli alternativi migliori. Parafrasando Winston Churchill, che si riferiva alla democrazia, potremmo dire che la globalizzazione è forse il peggiore degli scenari economici e per le relazioni tra nazioni… eccezion fatta per tutti gli altri.
* Marco Magnani è autore de “Il Grande Scollamento. Timori e speranze dopo gli eccessi della globalizzazione”, Bocconi University Press, di Marco Magnani, 260 pagine, €22, in libreria dal 9 febbraio (in italiano) e dall’8 marzo (in inglese).