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Il fattore Harris

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A poco meno di due settimane dall’investitura non ufficiale da candidata alla presidenza, sebbene abbia ricevuto già il 99% dei voti dei delegati che porterà in dote alla Convention di Chicago del 19 agosto, Kamala Harris ha già stravolto l’agenda del suo avversario Donald Trump. Ha insinuato, sfidandolo, che Trump voglia sottrarsi al faccia a faccia deciso per settembre: “se hai qualcosa da dire, dimmelo in faccia”, ha detto Harris all’ex presidente.

Una battuta tanto brutale Trump non l’aveva ricevuta neanche dalla sua rivale del 2016, Hillary Clinton. È proprio a lei e alla campagna denigratoria che Clinton subì da parte di Trump, che Harris guarda ora, ma non solo: anche a quella di Obama, quando Trump, all’epoca non candidato, già lo attaccava sulle sue “origini”, seguendo la famigerata e falsa teoria, conosciuta come the birtherism, e diffusa da svariati politici Repubblicani secondo cui l’ex presidente non era un vero americano, ma aveva falsificato i suoi documenti.

 

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Con queste premesse, nel corso di uno dei primi comizi da candidata in uno stato decisivo come la Georgia, Harris è riuscita a trasformare il “lock her up” (”mettetela dentro”) che Trump aveva usato contro la rivale Clinton nel 2016, in “lock him up” – in relazione ai 34 capi d’accusa che pendono sul capo del candidato Repubblicano. I diecimila partecipanti al comizio di Harris ad Atlanta l’hanno subito trasformato, più che in uno slogan, in una sorta di inno.

Kamala Harris

 

Offerta in costruzione

Ma chi è oggi Kamala Harris, dopo il più grande detour della storia americana delle campagne elettorali, con il ritiro di Biden dalla corsa a soli 100 giorni dalle elezioni? Harris è ancora la running mate di Biden, una promessa mancata destinata a non brillare, per suo demerito o per responsabilità del partito Democratico? Ancora: Harris, come ha scritto The Economist, ha adottato diversi avatar durante la sua esperienza: quale prevarrà o quale sarà costretta a scegliere?

Domande a cui solo il prossimo svolgimento della campagna potrà dare vere risposte, e che dipendono anche dalla scelta del suo numero due, il Vicepresidente, che Harris ha scelto in queste ore, optando per uno dei volti meno noti tra i possibili candidati alla Vicepresidenza: Tim Walz, governatore del Minnesota, insegnante di scienze sociali e allenatore di football, bianco nato in Nebraska, eletto al Congresso per diverse legislature in un collegio rurale e conservatore, proprio come lo Stato del Minnesota, che ha espugnato nel 2019 dopo 50 anni di governo repubblicano. Dal 2023 Walz ha assunto la guida dell’associazione dei governatori Democratici (DGA), piattaforma che consente di accedere ad una vasta rete di finanziatori del partito.

Una scelta, quella di Harris per Walz, che dovrebbe compensare le debolezze della candidata: parlare all’America rurale, che si è sentita dimenticata dai Democratici e dalla politica in genere. Walz, che ha un passato nella Guardia Nazionale e che ha sostenuto politiche di sostegno alle scuole pubbliche ed è pro-choice, potrebbe incarnare l’elettore moderato, progressista per alcuni aspetti ma anche profondamente lontano dalle scelte più liberal di un partito comunque plurale al suo interno, in cui il passaggio da Biden ad Harris ha significato la possibilità di uno scontro forte tra spinte molto diverse. Biden ha garantito per tutto questo tempo un equilibrio, è stato una sorta di garante che con Harris sarebbe potuto venire meno.

Tuttavia per orientarci in una terra che resta ancora incognita, dobbiamo necessariamente partire da come Harris risponderà alla fondamentale questione: su cosa deve puntare questa campagna elettorale (per vincere)?

Sostenitori Dem a un comizio di Harris

 

Tra identità e discontinuità

Già nei primissimi giorni, la candidata democratica – in attesa dell’investitura ufficiale del 19 agosto – ha puntato sulla difesa della democrazia, il rispetto della legge, i diritti riproduttivi e di aborto, mettendo al centro della campagna i processi contro Trump, le condanne già arrivate e il suo passato da procuratrice distrettuale in California – benché quest’ultimo elemento, negli anni della Vicepresidenza con Biden, non le abbia dato particolare consenso tra gli elettori di colore. E questo perché la Harris-procuratrice aveva cercato di coniugare la difesa degli agenti di polizia di San Francisco, particolarmente violenti verso gli afroamericani, anche disarmati, con la ricerca di un equilibrio a difesa del sistema carcerario. Durante i suoi due mandati da procuratrice, Harris ha assunto posizioni inizialmente più soft per poi virare verso posizioni più dure, anche con l’aumento delle incarcerazioni, in uno Stato come la California che in quegli anni avrebbe dovuto ridurre la popolazione carceraria, secondo la Corte Suprema .

Un approccio da organica al sistema che, forse per una donna di origini non bianche e che voleva scalare (politicamente) le cariche, può essere considerato opportunistico ma in fondo (forse) necessario. E ci permette di leggere la versatilità, a seconda dell’opportunità, che Harris ha saputo interpretare nel corso della sua carriera.

Porre al centro della campagna le tematiche progressiste non è però una garanzia di successo e potrebbe non bastare, anche al netto dei punti di debolezza. Vediamo perché, cosa funziona e cosa no.

Innanzitutto Harris non è Joe Biden. Pleonastico ma da ribadire. È uno dei maggiori punti di forza di Kamala Harris, come molti commentatori hanno subito riconosciuto. Gli endorsement di peso, da ultimo quello di Barack e Michelle Obama, oltre il boom di donazioni arrivate dopo l’annuncio della sua corsa contro Donald Trump, hanno confermato questo primo elemento: la discontinuità con il ‘suo presidente’.

È un punto di forza che produce almeno due conseguenze, in grado di rafforzare ancora di più il profilo di Harris: per prima cosa costringe Trump a cambiare l’argomento principale della sua campagna – la senilità di Joe Biden. Trump per il momento ha deviato sugli insulti e appunto il birtherism (l’attacco sulle “origini” e sulla persona: Harris è stupida, pazza, ride troppo, non è afroamericana, non è bianca, cos’è), mettendo in dubbio la rappresentatività delle sue origini multietniche. Inoltre, la discontinuità di Harris galvanizza ampie fasce di elettorato democratico, quelle che sembravano perdute perché insoddisfatte e profondamente deluse da Biden, soprattutto sulla sua incapacità di fare pressione per una tregua o ancora meglio la fine della guerra a Gaza.

Harris infatti ha assunto una posizione più definita e critica nei confronti del governo di Netanyahu, e si è rifiutata di assistere al discorso tenuto al Congresso dal primo ministro israeliano. Ha usato poi l’incontro ufficiale dell’indomani con Netanyahu e Biden alla Casa Bianca come palcoscenico per sottolineare la sua posizione sul tema: “Non rimarrò in silenzio di fronte alla disastrosa situazione umanitaria a Gaza e i civili uccisi – ha promesso Harris. Non solo: ha dichiarato che farà pressioni per ottenere un lungo cessate il fuoco, cercando di dimostrare a Netanyahu che il supporto incondizionato di Joe Biden non c’è più. Il vero cambio di passo però si otterrebbe solo con l’interruzione dell’invio delle armi americane ad Israele, ipotesi che l’amministrazione ha brandito più volte ma senza successo.

 

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Inoltre Harris sembra aver schivato anche le critiche di essere anti-israeliana, sebbene sia intervenuta con un po’ di ritardo con una dichiarazione contro gli eccessi dei manifestanti anti-Israele fuori da Capitol Hill. Tutte critiche però dovute all’eccessiva reattività mediatica e agli attacchi dei Repubblicani su questi temi: non c’è insomma molta sostanza.

 

Segmenti decisivi di elettorato

E questo è, tuttavia, il linguaggio della leadership e della speranza di un cambio di passo, per Harris. Mai come in queste elezioni, conterà l’elettorato di origini arabe e islamico, che ha visto in Joe Biden un presidente debole, che soccombeva alle fughe in avanti del primo ministro israeliano. Esattamente quegli elettori dichiaratisi ‘uncommitted’ nei mesi scorsi, alle primarie democratiche, e che nel 2020 avevano votato Biden. Quattro anni fa oltre il 60% degli elettori islamici registrati al voto in Michigan avevano contribuito alla vittoria di Biden nello Stato, con 154mila voti in più su Trump.

Gli elettori arabi registrati al voto si stimano siano oltre 1 milione e 200mila, il Michigan rappresenta lo Stato dove questa presenza è più numerosa, e questi lunghi dieci mesi di guerra li hanno senz’altro allontanati da Biden, che era il candidato per cui avevano votato di più nel 2020. Forse Harris riuscirà a ribaltare questa tendenza?

Un altro punto a favore della candidata è la possibilità di mobilitare l’elettorato Dem sulla questione dell’aborto, su cui Harris si è espressa con ancora più forza del cattolico Biden, già quando la Corte Suprema ha annullato la sentenza Roe V Wade, due anni fa. C’è poi il voto femminile e l’appartenenza di Harris alle minoranze, tradizionale bacino elettorale democratico benché meno blindato di un tempo. Pur non essendo un’afroamericana, bensì figlia di un padre giamaicano e una madre indiana, Harris è stata una candidata performativa nel senso di rappresentante delle minoranze sebbene non per tutte, come l’afroamericana, per la presidenza di Joe Biden.

 

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Un elemento legato al voto femminile, peraltro maggioranza nel paese sia in termini di elettori registrati (70% contro 68,2) che per percentuale di popolazione assoluta (50,5%), sul quale Harris gode di un vantaggio multifattoriale su Trump, come emerge dal sondaggio New York Times/Siena College le donne votano di più (si astengono in misura inferiore rispetto agli uomini, almeno 3%) e se si votasse oggi (il sondaggio è del 25 luglio), gli elettori preferirebbero Kamala Harris in una forbice che va dal 50 al 55%. Il voto per la vice di Biden, secondo il sondaggio, cresce proprio nelle coorti 18-29 anni, che fino a qualche mese fa tendevano a favore di Trump proprio perché in campo c’era Biden: oggi per Harris sono tra il 47 e il 56%.

Se si guarda alla percentuale del voto di colore (afroamericano), il 69% di costoro voterebbero per la candidata democratica in pectore. Segue il 57% degli ispanici, il 53% di voto “non bianco” e il 40% di voto “bianco”; qui Trump raggiunge il 56%.

I voti degli elettori delle minoranze e delle donne, è noto, pende spesso a favore dei Democratici, con percentuali che oscillano tra il 10 e il 15% – le donne in particolare – come è stato registrato nelle elezioni del 2016, in cui a perdere però è stata Hillary Clinton contro Donald Trump, e nel 2020 quando è Trump che ha perso contro Biden.

La media dei sondaggi sulle presidenziali americane ha registrato da poco il sorpasso di Harris su Trump – in termini di voto popolare. Fonte: New York Times

 

Il fardello di Joe

Non essere Joe Biden ma dover in un certo qual modo raccogliere e difendere la sua eredità è uno dei punti di debolezza di Harris. Due questioni su tutte le altre, e che rappresentano anche il record della Harris come VP di Biden: l’inflazione e le conseguenze economiche sui salari, e l’immigrazione. Harris lo rivendica spesso, in queste prime uscite: i risultati dell’amministrazione di cui ha fatto parte sono stati importanti, indubbiamente di successo per occupazione, spinta sulle politiche per la transizione energetica, recupero parziale dei danni da inflazione. Ma lei stessa in uno degli ultimi eventi elettorali lo ha ammesso: l’inflazione fa ancora male. Questo è un tema su cui si decide un’elezione. Nel mezzo, gli accordi e i disaccordi con la macchina organizzativa e la legacy di Biden, tra questi anche la de-criminalizzazione degli immigrati illegali al confine. Posizioni su cui Harris non ha portato risultati o persino ha subito per suo demerito penalizzazioni, come il caso dell’immigrazione, rimasto più nella memoria dell’opinione pubblica di quanto non lo sia stato il suo zittire l’avversario nei dibattiti (pensiamo a Pence nel 2020).

Sull’immigrazione tuttavia, per quanto resti il tallone d’Achille dell’intera amministrazione Biden, Harris si giocherà la carta dell’accordo rifiutato dai repubblicani di Trump, che pure al Congresso i senatori Dem avevano proposto, e che avrebbe potuto arginare l’emergenza.

Quello che conta più di ogni altra cosa allora, a questo punto della corsa – 100 giorni dal 5 novembre – è la visione generale che saprà dare Harris: non basta la grinta di Milwaukee, il primo discorso da candidata del 23 luglio, serve fare il passo in più che a Biden è mancato, almeno per i suoi elettori: Bidenomics rafforzata, l’enfasi sull’Inflation Reduction Act, far passare una legge sulle armi d’assalto, l’assistenza sociale all’infanzia, le iniziative e i progetti per le politiche green, il bando sul fracking. Promesse già fatte, in parte da Biden, ma che ora devono essere mantenute, sebbene Biden le abbia provate tutte anche contro una parte del suo stesso partito, pensiamo al Senatore Dem Joe Manchin che lo ha osteggiato sul grande piano ‘Build Back Better’.

Su immigrazione e politica estera alcuni percorsi saranno obbligati: supporto all’Ucraina, rafforzamento delle frontiere perché la situazione non è effettivamente gestibile, ma miglioramento dell’assistenza alle famiglie o ai minori non accompagnati. Harris è e resta una candidata che parla alle minoranze afroamericane, quelle stesse minoranze deluse da Biden e raccontate dai media americani in tutti questi mesi. Ora che Biden non è più il candidato è arrivato il momento per Harris di “finire il lavoro” dell’amministrazione dando un’idea di futuro e una visione che purtroppo anche per l’età Biden non è riuscito a dare. E soprattutto dismettere i panni del simbolo e della candidata performativa per indossare l’abito della donna tra pari – a differenza di Clinton che era percepita come espressione di un clan potente all’interno del partito Democratico – che difendendo i diritti delle donne difenderà i diritti di ognuno. E’ un film, una fiction, una puntata di House of Cards non ancora scritta: presto sapremo se Harris sarà in grado di farlo.