international analysis and commentary

Un background sul faticoso negoziato afgano

2,246

Un’auto-bomba ha colpito lunedì 2 settembre, di notte, nel cuore di Kabul il Green Village, luogo frequentato anche da stranieri (almeno 16 morti e oltre 100 feriti); nel Nord dell’Afghanistan i combattimenti non si fermano. Questa continua violenza è il paradossale corollario all’intervista televisiva dell’inviato americano a Doha Zalmay Khalilzad: proprio ieri sera ha spiegato in cosa consiste il faticoso accordo raggiunto coi Talebani, che Donald Trump dovrà firmare. Entro quattro mesi 5.400 soldati americani lasceranno l’Afghanistan e in due province si comincerà una sorta di cessate il fuoco. Ma restano numerosi nodi da sciogliere. Ecco come ci si è arrivati.

Zalmay Khalilzad, inviato speciale della Casa Bianca per la riconciliazione in Afghanistan dal settembre 2018

 

La “guerra più lunga” di Donald Trump è la campagna d’Afghanistan, ereditata dai suoi due predecessori: George W. Bush che l’ha iniziata nel 2001, e Barack Obama che ha tentato di terminarla con scarsi successi entro il suo doppio mandato. Ma l’ondivago capo di Stato americano – che in campagna elettorale era per il ritiro e da presidente ha poi avallato il contrario, aumentando gli stivali sul terreno nel Paese dell’Hindukush – potrebbe invece essere ricordato per l’uomo che quella campagna l’ha davvero conclusa. O che almeno ha tentato in tutti i modi di farlo.

Se figlio di una strategia meditata (aumentare la pressione militare per poi trattare), di un voltafaccia imprevedibile o di un lento lavorio in realtà già in atto da anni, il processo di pace tra Stati Uniti e guerriglia in turbante è iniziato di fatto sotto il mandato di Trump. Le cose si erano già mosse in maniera ancora ufficiosa ma, nel mezzo dell’estate del 2018, cominciavano a filtrare indiscrezioni che diventeranno poi notizie di passi formali. Tra giugno e luglio 2018, infatti, il mandato di cominciare un processo negoziale viene affidato ad Alice Wells, senior South Asia diplomat del Dipartimento di Stato.

Il luogo delle prime avances è Doha, dove i talebani hanno aperto un ufficio politico che funge da loro ambasciata – dal 2013 e non senza polemiche da parte dell’esecutivo di Kabul allora guidato da Hamid Karzai. E se a fine luglio 2018 i primi contatti informali si chiudono con “segnali positivi”, bisogna poi aspettare novembre per un primo incontro ufficiale che vede Zalmay Khalilzad – afgano americano dalla lunga carriera diplomatica – incontrare nuovamente a Doha a un tavolo negoziale la delegazione capeggiata da mullah Sher Mohammad Abbas Stanekzai, capo dell’ufficio politico in Qatar.

L’avvicinamento è circondato da mosse e pressioni che coinvolgono sia il Pakistan – attore ineludibile – sia Mosca. In ottobre i talebani confermano la liberazione di mullah Abdul Ghani Baradar dalle prigioni di Islamabad (ovviamente, dunque, con la collaborazione del Pakistan). E’ stata una richiesta americana per far sì che il negoziatore fosse lui, uomo della vecchia guardia, autorevole e ascoltato dalla base e da mullah Hibatullah Akhundzada (a capo della shura di Quetta, la cupola politica del movimento) e che viene considerato una colomba.

Ma c’è anche la pressione di Mosca che si fa sentire: prima dei colloqui diretti di novembre a Doha tra Stati Uniti e guerriglia, i russi hanno invitato talebani e personalità afgane a Mosca. Vogliono mettere i piedi nel piatto: ciò spinge ulteriormente Washington ad accelerare.

 

Due ostacoli: dialogo col governo e cessate-il-fuoco

I colloqui di fine 2018 sono la premessa a un accordo che comincia a delinearsi a gennaio 2019 e va poi avanti sino ad agosto di quest’anno, quando si conclude il nono round negoziale tra Khalilzad e Baradar, che ha ormai assunto la leadership della delegazione talebana. Il prossimo sarà entro le presidenziali afgane di fine settembre. Ad oggi però non ci sono ancora novità definitive – anche se il clima appare sempre più disteso – e soprattutto restano due ostacoli chiave. Finora, il negoziato ha stabilito soltanto che le truppe straniere si ritireranno anche se non è chiaro quando, in quanto tempo e in che modalità. Gli americani in cambio hanno ricevuto assicurazioni che l’Afghanistan non darà mai più ospitalità a gruppi o persone che rappresentino un pericolo per la sicurezza nazionale americana. Sono le due premesse (ritiro delle truppe per i talebani, garanzie della fine di un safe haven al terrorismo per gli USA) che possono far proseguire la strada negoziale. Ma l’ostacolo della partecipazione del governo afgano ai colloqui è ancora presente ed è ancora sbarrata la strada di un cessate il fuoco. Anche se qualcosa si muove.

Agli inizi di luglio, mentre talebani e americani si incontrano per il settimo round negoziale, Qatar e Germania hanno invitato a Doha oltre una cinquantina di rappresentanti della politica afgana e della società civile tra cui una decina di donne. Tra loro c’è persino qualcuno del governo, anche se “a titolo personale”. Si incontrano con i talebani che, seppur continuando a rifiutare un dialogo intra-afgano con Kabul, accettano di incontrare le delegazione. E’ il secondo tentativo, il primo era fallito per la richiesta di Kabul di accreditare una lista di 300 delegati: questa volta funziona. Nel comunicato congiunto si dice che si mira all’impegno “…di rispettare e proteggere la dignità delle persone, la loro vita e le loro proprietà e a ridurre a zero le vittime civili”. Non è la tregua ed è solo una dichiarazione di intenti, ma è un passo avanti. Sia sulla strada in salita del dialogo intra-afgano sia su quello della guerra e quindi della pace. Ed è un passo che ha dei precedenti.

 

Strada tortuosa

Il primo precedente da ricordare è la tregua di tre giorni in occasione di Eid el-fitr concordata tra talebani e governo a giugno 2018. I tentativi di prolungarla per poi farla diventare un cessate il fuoco falliscono, ma non è un caso se a distanza di pochi giorni partono i primi passi di dialogo tra americani e talebani che iniziano dunque con alle spalle il primo accordo embrionale che per tre giorni fa tacere le armi. Il secondo precedente sono i colloqui tra personalità politiche dell’opposizione e talebani sia a Mosca sia in Pakistan (l’ultimo solo qualche settimana fa). Spingono ovviamente nella direzione di un’accelerazione del tavolo di Doha.

Infine – terzo precedente – il movimento pacifista “autoconvocato” che, dal marzo del 2018, si è sviluppato in Afghanistan: si chiama movimento dei “marciatori di pace” e nasce nella capitale dell’Helmand – Lashkargah – dopo l’ennesimo attentato. Gli aderenti si muovono a piedi con lunghe marce forzate e sit-in e chiedono a governo, alleati e talebani di aderire a un cessate il fuoco preliminare. Ma nonostante marce, scioperi della fame, appelli contro la guerra nessuno apparentemente sembra prestar loro ascolto. Non il governo di Kabul che si è limitato a non ostacolarli, non le diplomazie alleate che li hanno ignorati e tanto meno i Talebani che anzi accusano i marciatori di essere emissari del nemico e spie. Anche la grande stampa (con la lodevole eccezione del “New York Times”) li ignora pur trattandosi forse del movimento più significativo degli ultimi anni per forza, resistenza, consenso e chiarezza degli obiettivi. Difficile però che non se ne sia tenuto conto anche per la resilienza del movimento stesso, diffusosi a macchia di leopardo e circondato da un generale consenso popolare. Che talebani, governo e alleati hanno sempre di meno.

Una delle marce per la pace tenuta negli ultimi mesi

 

Il non detto: il controllo delle basi aeree

Ma se tutto quanto accade sembra favorire la pace, quel che succede sul terreno o nel “non detto” del negoziato continua a pesare. Intanto la guerra: gli attentati non sono diminuiti anche se è minore il numero delle vittime che in gran parte sono (come sempre) civili. Poi c‘è la variabile Stato Islamico: i talebani sono nemici dell’Isis tanto quanto gli americani e il governo di Kabul, ma nei vasi comunicanti della guerriglia afgana l’unica cosa fuori controllo è proprio il passaggio da una formazione armata all’altra; fornire garanzie sui safe haven per il jihadismo globale è una promessa fragile, al netto delle divisioni interne del movimento tra falchi e colombe, silenti ma presenti.

Quanto agli americani, il loro ritiro completo significherebbe rinunciare non solo alla base militare di Bagram ma anche all’utilizzo delle basi aeree afgane, stabilito da un accordo firmato tra Washington e Kabul nel 2014. In questo momento soprattutto, mentre spirano venti di guerra sul Golfo e i rapporti con Mosca non sono certo distesi, è poco credibile che gli USA – dopo aver pagato un prezzo tanto alto con uomini e denaro – possano abbandonare il polo strategico militare che l’Afghanistan rappresenta. Da li, controllando le basi aeree afgane, Washington può monitorare il fianco meridionale dell’ex-Urss e il fronte orientale dell’Iran e semmai utilizzarle in caso di conflitto. Ufficialmente nei negoziati di basi non si parla. Ma il segreto di pulcinella è che questo è uno dei punti più scottanti in agenda.

L’altro riguarda la ”forma” dello Stato, una volta partiti gli invasori. I Talebani puntano all’emirato. Kabul e alleati a tener fermo il paletto della Costituzione e dunque di una democrazia, fragile e imperfetta, ma regolata dalla Carta. Ma tutto ciò potrebbe essere rimandato al dopo: al possibile dialogo tra afgani su cui la guerriglia sta lentamente cedendo posizioni. Nei negoziati infatti non contano solo gli equilibri sul terreno, le pressioni esterne (oltre a Mosca e Islamabad, Teheran e Pechino, le capitali del Golfo e dell’Asia centrale) ma anche il consenso. Che è per tutti al lumicino e che, per tornare a crescere, ha bisogno che la guerra si fermi.

 

Il valore strategico dell’Afghanistan