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Il contesto dell’attacco agli italiani in Congo

Testo scritto in collaborazione con Francesco Paolo La Bionda, Andrea Lapegna e Riccardo Pennisi

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La situazione politica nella Repubblica Democratica del Congo è instabile, ma soprattutto l’irriducibile assenza dello Stato nei territori più distanti e isolati dalla capitale Kinshasa è terreno fertile per il proliferare di gruppi armati. E’ questo, nelle linee generali, il contesto il cui si è prodotto l’assassinio dell’Ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci e del loro autista in un agguato seguito da scontri a fuoco dalle dinamiche ancora non chiarite, il 22 febbraio.

La Repubblica Democratica del Congo. Nei dintorni di Goma, al confine col Ruanda, l’assalto all’ambasciatore italiano

 

L’attuale Presidente della Repubblica Félix Tshisekedi ha vinto le elezioni generali del 2018 per mezzo di brogli, secondo diversi osservatori tra cui la Chiesa Cattolica. Si ritiene che il risultato sia stato frutto di un accordo sottobanco col suo predecessore e rivale Joseph Kabila, che non aveva potuto ricandidarsi ma che aveva mantenuto la maggioranza sia all’Assemblea Nazionale sia al Senato. L’intesa terminata è però acrimoniosamente lo scorso dicembre, con l’inizio di un’offensiva politica da parte del Presidente in carica per conquistarsi una maggioranza autonoma. Lo scorso 15 febbraio Tshisekedi ha nominato Primo Ministro Jean-Michel Sama Lukonde Kyenge, considerato vicino al potentissimo uomo d’affari e politico Moïse Katumbi, schierato a suo favore.

Félix Tshisekedi (sinistra) e Joseph Kabila (destra)

 

Lontano da Kinshasa, perdurano focolai di violenza latenti e attivi. Le fiamme delle tensioni etniche covano sotto la cenere nelle province centrali del Kasaï, dove nel 2016 hanno portato allo scoppio di una guerra tra le milizie di etnia Luba e Lulua, note anche come Kamwina Nsapu, da una parte, contro le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) e le milizie etniche rivali dall’altra. Il conflitto ha provocato oltre 3.000 morti e un milione e mezzo di sfollati e si è arrestato solo due anni fa, dopo le elezioni. I ribelli hanno dichiarato una resa che equivale più a un cessate il fuoco, dato che il 90% dei guerriglieri si è tenuto le armi.

L’incendio divampa invece nelle province nord-orientali dell’Ituri e del Kivu-Nord (proprio quella dell’imboscata del 22 febbraio), dove la violenza continua ininterrotta sin dall’inizio della prima delle due guerre del Congo, che tra il 1996 e il 2003 hanno causato 5,4 milioni di morti. Nel solo 2020, secondo stime ONU, sono stati uccisi almeno 2.500 civili, spesso in massacri premeditati e ritorsioni, dai 120 gruppi armati presenti, divisi tra milizie etniche locali e formazioni legate ai conflitti nei paesi vicini. Tra queste ultime si annoverano le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), eredi dei genocidari hutu ruandesi e sospettate, nonostante abbiano negato, di essere le autrici dell’omicidio di Luca Attanasio.

Altro sgradito ospite sono le Allied Democratic Forces (ADF), ribelli musulmani ugandesi riciclatisi come jihadisti dello Stato Islamico, la cui attività è in aumento. Le FARDC, supportate dai caschi blu della missione MONUSCO della Nazioni Unite, non riescono a mantenere il controllo del territorio nonostante il successo delle offensive militari e si sono macchiate al pari dei miliziani di efferate violenze ai danni della popolazione civile, tra cui stupri ed esecuzioni sommarie.

I rapimenti di agricoltori, le ritorsioni verso civili, e l’arruolamento di bambini e minori per azioni di guerriglia sono purtroppo episodi ben documentati. Se da un lato il ricorso alla violenza avviene soprattutto per controllare grandi opportunità di lucro come miniere e infrastrutture, dall’altro i gruppi armati hanno come principale fonte di sostentamento i saccheggi, le estorsioni, i riscatti per rapimenti e le richieste di pizzo. E sebbene questi gruppi siano formalmente ostili alle istituzioni, dato che spesso rivendicano il riconoscimento politico di etnie considerate discriminate, il coinvolgimento delle forze di polizia locali nei raid è tutt’altro che raro.

Il funerale di un pastore vittima dei conflitti armati nel Kivu-Sud

 

La capitale Kinshasa dista dalle province coinvolte nei conflitti oltre 2.000 km. Al contrario, la frontiera con i confinanti Uganda, Ruanda e Burundi è vicinissima, e assolutamente porosa alle guerre che questi tre paesi, già dalla fine degli anni ’90, ingaggiano per procura utilizzando i territori della Repubblica Democratica del Congo come campi di battaglia.

In questi casi si tende a pensare ad esplosioni di violenza di matrice etnica, o poco più che economica, provocate da signori della guerra a capo di bande armate tanto feroci quanto improvvisate. Ma la dimensione politico-regionale e transfrontaliera dei conflitti, nel cuore di una parte dell’Africa sconvolta da decenni da guerre di ogni tipo in molti dei suoi stati, dovute al nazionalismo etnico trasformato in ricetta amministrativa dai capi di stato locali, non va trascurata.

Guerre e discriminazioni hanno portato negli anni alla formazione di milizie di ogni tipo, ma hanno avuto anche vari effetti indiretti: hanno alimentato il traffico di armi e le hanno diffuse tra la popolazione; hanno provocato un numero enorme di sfollati, fuggiaschi e rifugiati che a loro volta hanno impattato su altri territori vicini, originando ulteriori disagi e conflitti; hanno creato le condizioni per una corruzione endemica e diffusa; e hanno formato dei centri di potere radicati e alternativi alle strutture amministrative e di controllo statali.

Gli abitanti del Kivu-Sud non hanno mai dimenticato l’arrivo dei guerrieri che vestivano la divisa dell’”Esercito Patriottico Ruandese”, guidati da miliziani di un’etnia locale prima emarginata e assetata di vendetta contro le altre, i banyamulenge, e concluso col massacro di trenta pazienti dell’ospedale più grande della regione. Era il 1996 e il governatore del Sud-Kivu rispondeva con l’ordine della cacciata di tutti i banyamulenge dal Paese (che allora si chiamava Zaire). Ma inutilmente. Il loro slancio, all’interno del movimento rivoluzionario guidato da Laurent-Désiré Kabila, era troppo forte: percorsero in una lunga marcia tutti i duemila km che li separavano dalla capitale Kinshasa, e lì deposero il “grande leopardo” Mobutu, col pieno sostegno di Uganda e Ruanda.

Ma Kabila dimentica presto il debito politico coi suoi stati padrini: l’anno successivo, il suo capo della diplomazia fa un appello a tutti i guerriglieri congolesi a “schiacciare gli insetti tutsi” che dal Ruanda si infiltrano nella appena ridenominata Repubblica Democratica del Congo (RDC). E’ di nuovo la guerra: stavolta dura cinque anni, coinvolge nove stati della regione, provoca un numero di morti incalcolabile. E’ un disastro per Kinshasa, tanto più che i capi politico-militari di Uganda e Ruanda, Museveni e Kagame, occupano le regioni frontaliere della RDC, che straboccano di risorse minerarie come il cobalto, legnami preziosi e terre fertili.

Decine di gruppi armati nascono, prosperano, saccheggiano, contrabbandano, si arricchiscono e combattono. Contro chi? Dipende dalla convenienza del momento, tanto più che Museveni e Kagame a un certo punto litigano, e si dichiarano guerra anche fra loro. I banyamulenge, la cui riscossa era arrivata grazie all’esercito ruandese, ora vedono il Ruanda come una potenza occupante, e vi si rivoltano contro, dando aiuto agli avversari di Kagame, come l’esiliato in Sud Africa Kayumba Nyamwasa. A sua volta, il Ruanda dichiara i banyamulenge nemico pubblico numero uno. Nel frattempo a Kinshasa Laurent-Désiré Kabila è morto, ucciso da una delle sue guardie, e il potere è preso da suo figlio Joseph.

Joseph Kabila lascia costruire a Nyamwasa basi militari nell’est della RDC, proprio nelle province del Kivu, benché costui sia di etnia tutsi – quella che suo padre voleva schiacciare. Arrivano aiuti anche dal Burundi, dove molti giovani tutsi si decidono a prendere le armi per ribellarsi contro il proprio governo autoritario. Molte delle nuove leve provengono addirittura dalle università del Kenya e dell’Uganda, per partecipare a conflitti che si ammantano di richiami politici, etnici e religiosi.

Le province orientali della RDC, ormai terra di nessuno, pullulanti di armi, di traffici, di ricchezze, sono l’avamposto ideale per costruire armate, eserciti, gruppi militari e trovare risorse ed equipaggiamenti da utilizzare per i fini più diversi.

Fini di cui si perde a un certo punto ogni coerenza ideologica, sostituita invece soprattutto da una cruda convenienza di interessi particolari e momentanei e da una ferocia spietata. Per chi vive sulle alture e sugli altipiani del Kivu, spesso non c’è alternativa alla fuga (in RDC ci sono 5 milioni di rifugiati interni, un altro milione è scappato all’estero) per difendersi dall’incessante violenza. L’aiuto umanitario, che portava l’ambasciatore Attanasio – era in carovana con il World Food Program al momento dell’assalto – arriva solo con grande difficoltà in una delle regioni più impervie del continente africano.

Il campo di rifugiati di Bijombo, nel Sud-Kivu

 

 


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