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I freni alla politica estera di Trump sui dossier iraniano e cinese

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La politica estera dell’amministrazione Trump è stata caratterizzata da fasi di quiete e improvvise fiammate di attivismo – quasi imprevedibili, alla luce dell’impostazione tutta nazionale e unilaterale della proiezione esterna del Paese. I processi decisionali americani in questi tre anni sono risultati difficilmente penetrabili per alleati e partner, anche a causa del limitato scambio di informazioni di tipo regolare e sistematico. Sono però emersi, negli ultimi mesi, vari meccanismi che potrebbero frenare questa spinta ad agire in formato unilaterale. Li stiamo vedendo in azione sia sul dossier iraniano, sia su quello cinese.

Il Congresso degli Stati Uniti

 

La strategia che non c’è e il freno del Congresso

Nel caso dell’Iran è stato notato da più parti come sembri mancare una vera strategia. Non si intravede cioè alcun passo ulteriore che sia pianificato e ben articolato rispetto all’azione militare del 6 gennaio contro il Generale Qasem Soleimani: si è colpito un obiettivo in sè importante, che è però rimasto sconnesso da un qualche fine più ampio. Il concetto di “deterrente” – richiamato in particolare dal Segretario di Stato, Mike Pompeo – è infatti assai vago contro una media potenza regionale che dal 1979 è abituata ad essere sostanzialmente accerchiata da Paesi quasi del tutto ostili.

In altre parole, un limite intrinseco alla politica di Trump verso l’Iran viene proprio dalla vaghezza degli obiettivi (come evidenzia il tono perfino minimalista delle dichiarazioni ufficiali di Washington nei giorni successivi all’operazione). La sostanza è forse che l’amministrazione è almeno temporaneamente soddisfatta del nuovo status quo, dopo una lampante dimostrazione di capacità militare e della volontà di impiegare la forza.

Il problema, ben più ampio, è semmai quale equilibrio di potenza, o quali assetto di alleanze, gli Stati Uniti siano disposti a sostenere nella regione, anche soltanto dall’esterno e con una minima presenza militare di terra. Se Trump punta anzitutto a impedire lo sviluppo di un programma nucleare militare e fermare al contempo la crescita di influenza regionale di Teheran, deve decidere se andare a uno scontro diretto più vasto; l’Iran non cesserà infatti di perseguire entrambi gli obiettivi. E intanto gli Stati Uniti hanno segnalato ripetutamente di voler ridurre al minimo la propria esposizione mediorientale. Appare davvero difficile “rilanciare”, nella pericolosa partita a poker in corso, in tali condizioni.

Una seconda considerazione, ancora rispetto al dossier iraniano, è in realtà tutta di politica interna americana: Trump ha un bacino elettorale, in vista delle presidenziali di novembre, saldamente favorevole a una riduzione degli impegni militari e certamente ostile a nuove azioni offensive su larga scala – i sondaggi lo hanno confermato dopo l’escalation di inizio anno. Questo dato sarà molto importante almeno fino al voto.

Un terzo freno al possibile inasprirsi del confronto con Teheran è stato posto dal sistema costituzionale americano – i famosi “checks and balances”. Lo si è visto con la Risoluzione passata alla Camera dei Rappresentanti il 9 gennaio, grazie anche al voto di tre membri Repubblicani, secondo cui il Presidente deve servirsi delle Forze Armate contro l’Iran solo dopo autorizzazione del Congresso. Un voto in sé poco più che simbolico (e con molti precedenti per altre amministrazioni), ma indicativo di una realtà politica che interessa anche i sostenitori di Donald Trump. Sebbene la grande maggioranza del Congresso (compresi i Democratici) nutra profondi sentimenti anti-iraniani, l’uso della forza è una questione troppo pericolosa per lasciare future decisioni soltanto alla Casa Bianca – soprattutto a questo Presidente.

Il voto di novembre potrebbe cambiare gli equilibri anche al Congresso, e il messaggio lanciato dalla Camera – mentre anche un paio di Repubblicani in Senato muovevano la medesima critica all’amministrazione – conferma un dato ricorrente nella storia americana: a nessun capo dell’esecutivo viene lasciata mano libera, soprattutto se dimostra di non consultare e informare con attenzione l’altra fondamentale “branch of government”.

 

Luci e (tante) ombre nell’accordo commerciale con la Cina

Veniamo allora ai rapporti con la Cina, che hanno una valenza realmente globale e sistemica, al contrario di quelli con l‘Iran, nonostante i rischi militari. Il Presidente ha naturalmente presentato l’accordo economico raggiunto il 15 gennaio con la leadership cinese come un notevole successo, alla luce della riduzione di una parte dei dazi commerciali che erano stati imposti reciprocamente dalle due parti. Le valutazioni su questa intesa di tipo “fase 1” sono piuttosto unanimi: come tale, è appunto soltanto un primo passo, che in sostanza riporta indietro le lancette dell’orologio e forse pone le basi per un dialogo che richiederà comunque molta pazienza e creatività.

Ma nell’immediato si tratta principalmente di una rinuncia americana agli obiettivi più ambiziosi, perché non c’è stata alcuna reale concessione sui punti più controversi da parte di Pechino, che intanto ha incassato la fine della designazione di “currency manipulator” da parte americana. E gli impegni cinesi sono modesti rispetto al grande squilibrio della bilancia commerciale che è all’origine dell’approccio di Trump.

Per valutare appieno l’impatto dell’operazione “guerra dei dazi”, e i suoi possibili sviluppi futuri, è necessario adottare prospettive diverse che pongono quesiti ben distinti. Ci si può chiedere se sia stata vantaggiosa per l’economia globale: certamente no, avendo rallentato la crescita mondiale e indebolito il già fragile regime WTO, senza probabilmente cambiare l’atteggiamento cinese. O se sia stata favorevole per l’Europa, magari in quanto parte di un rinnovato asse transatlantico contro una Cina aggressiva: sembra davvero di no, visto il metodo bilaterale (soltanto USA-Cina) e visto che il prossimo bersaglio commerciale di Trump rischia di essere proprio la UE, a cominciare dalla Germania.

Ci si può allora chiedere se il ricorso ai dazi abbia servito gli interessi americani: presto per dirlo, poiché il deficit commerciale non è di per sé un fattore di vulnerabilità (e comunque per ora si è aggredito solo quello con la Cina), il settore manifatturiero USA non è in ripresa e intanto i costi dei dazi sono ricaduti soprattutto sui consumatori americani (prezzi più alti) e su alcune aziende americane (profitti più bassi).

Infine, è ovvio domandarsi se lo scontro dei dazi abbia aumentato le chances elettorali di Trump: qui l’effetto è ad oggi sostanzialmente neutro, ma è legittimo il sospetto che il Presidente per primo fosse preoccupato e dunque ansioso di raggiungere un qualche accordo parziale, più in fretta possibile.

E’ chiaro che dalla prospettiva della Casa Bianca contano quasi soltanto le ultime due considerazioni, cioè gli interessi americani e il voto del prossimo novembre. Eppure, anche restando su questi due punti il quadro che emerge non è molto positivo.

 

Problem-solver o trouble-maker?

Per tornare allora alla questione più complessiva della politica estera, c’è un tratto comune tra l’approccio di Washington alla questione iraniana e ai rapporti di interdipendenza economica con la Cina: potremmo dire che l’amministrazione ha ora “risolto” metà del problema che lo stesso Presidente Trump aveva creato in precedenza. Nel primo caso, con il ritiro dal JCPOA del 2015 seguito dalle varie azioni di “massima pressione” contro Teheran, mentre si preannunciava una netta riduzione dell’impegno regionale diretto. Nel secondo caso, con l’imposizione di pesanti dazi motivati con gli squilibri commerciali e i comportamenti scorretti di Pechino. L’esito temporaneo su entrambi i tavoli, a inizio 2020, consiste in pratica in un assestamento (ai limiti della ritirata tattica) da parte americana, forse in attesa di tempi più propizi ma certo senza aver raggiunto una svolta in alcun senso. E sul piatto della bilancia va messo il costo e il rischio delle iniziative prese da Washington.

E’ per questo che l’establishment (perfino alcuni dei più stretti collaboratori attuali di Trump, rimasti fedeli dopo la morìa di membri del Gabinetto e consiglieri che ha segnato la sua amministrazione) sta tuttora cercando di frenare il Commander-in-Chief, probabilmente perché non lo ritiene davvero in grado di maneggiare in autonomia i più importanti dossier di politica estera.

Non va poi dimenticato che, per i membri del Congresso, vi sono rischi politici oggettivi nella procedura di impeachment che è arrivata al Senato: molti di loro hanno in ballo la rielezione a novembre, e tutta la vicenda delle accuse di “high crimes and misdemeanors” è originata proprio da un evidente errore nella gestione dei rapporti internazionali (sia con la Russia che con l’Ucraina). Insomma, vi sono molti buoni motivi per non lasciare alla Casa Bianca un assoluto dominio sulla politica estera; è sempre stato così, in una sorta di congenito braccio di ferro istituzionale con il Congresso, ma rispetto all’attuale Presidente la spinta in questa direzione è aumentata.

In ultima analisi, nessuno degli argini esistenti sarà sufficiente a eliminare il margine di manovra di cui gode la presidenza negli Stati Uniti, ma la fase di quasi totale libertà di cui ha approfittato Donald Trump nei confronti dell’Iran (una questione di sicurezza molto specifica) e della Cina (una questione macro di importanza globale) sembra terminata.

Entrambe le questioni toccano interessi fondamentali del Paese – dunque dell’intero sistema politico – e coinvolgono, in modo sia razionale sia emotivo, anche parte degli elettori che saranno decisivi per il voto di novembre. Potranno esserci altri episodi di escalation e momenti di alto pericolo in Medio Oriente (soprattutto per errori reciproci di valutazione tra Washington e Teheran), e certamente altri episodi di “guerra con altri mezzi” contro Pechino; intanto però, ai fini della rielezione converrà al Presidente parlare poco di Iran e fare il meno possibile nella regione, evitando nel frattempo attacchi economici frontali alla Cina.