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L’uccisione del generale Soleimani: dalle motivazioni alle conseguenze

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Sull’irrazionalità della decisione di sfidare la nazione iraniana e le folle sciite dei paesi vicini assassinandone la personalità più popolare tutto è stato detto, e qualcosa di più (tanto da battezzare un nuova tendenza social, terza guerra mondiale, #WWIII). Ma vale la pena sottolineare alcuni punti riguardo alle motivazioni di quel raid del 3 gennaio, le sue conseguenze per gli Stati Uniti e l’Occidente, e i rischi per la pace e la sicurezza internazionale.

Parlamentari iraniani cantano inni anti-USA e anti-Israele dopo l’uccisione di Soleimani

 

Deterrenza, ossessione, impulsività: le ragioni alla base del raid

Se la decisione presa nella residenza privata di Trump a Mar-a-Lago fra una partita di golf e l’altra aveva uno scopo (al di là di sfogare l’ira per l’attacco all’Ambasciata a Baghdad dei giorni precedenti, peraltro rientrato senza fare vittime), era quello di ottenere il plauso dell’opinione pubblica americana, come era avvenuto con le spedizioni per uccidere i capi dell’ISIS e di al Qaida. Confidando che gran parte di quell’opinione pubblica fosse ignara della fondamentale differenza fra due ex-terroristi braccati, fondatori di organizzazioni ormai sconfitte, e la seconda personalità di un grande stato funzionante, con una capacità di rappresaglia infinitamente superiore.

Più discutibile è la tesi che il Presidente abbia voluto distogliere l’attenzione dall’impeachment. In realtà l’incriminazione è stata già votata dalla Camera, senza che ciò danneggi più di tanto la sua popolarità fra i Repubblicani, e sull’assoluzione al Senato non può esserci alcun dubbio, dato che per la condanna occorrerebbero i due terzi dei voti.

Il Segretario di Stato, Mike Pompeo, ha dichiarato che l’eliminazione del generale si era resa necessaria per impedire un attacco imminente, per “salvare vite umane”; ma non ha fornito elementi a sostegno di quella affermazione, e molti commentatori americani dubitano che abbia qualche fondamento. E comunque Soleimani non era un terrorista con una bomba in mano da fermare sparando. Anche dopo la sua morte le operazioni delle milizie sciite da lui organizzate e incoraggiate non si arresteranno, anzi è facile prevedere che saranno intensificate.

Un’ipotesi che in genere non viene menzionata dai commentatori per non essere tacciati di pregiudizio anti-israeliano e quindi di inconfessato antisemitismo è che il suggerimento sia venuto dall’alleato israeliano. Se non direttamente almeno indirettamente, cioè da consiglieri in stretta sintonia con il governo di Gerusalemme, gli stessi che hanno ispirato l’ossessione anti-iraniana di Trump.

Un’ossessione che non corrisponde all’interesse nazionale americano ma riflette i comprensibili timori di Israele. Per il primo ministro Benjamin Netanyahu, il generale carismatico che sobillava e armava lo Hizbollah sciita in Libano e lo Hamas sunnita a Gaza, e che aveva insediato unità militari iraniane in Siria nei pressi del Golan, territorio per gran parte controllato da Israele, era in effetti il nemico da abbattere. Rientra perfettamente nella mentalità e nella prassi della dirigenza politica e militare israeliana, come di quella americana, pensare che l’eliminazione di un re, o un leader, significhi la disfatta del nemico: come nelle antiche guerre contro i barbari, come nel gioco degli scacchi. E benché l’esperienza insegni che c’è sempre un luogotenente – magari ancora più radicale – pronto a prenderne il posto; e che nelle società islamiche la vendetta è un valore sacrosanto, e un potente fattore di coesione nazionale.

Un miliziano si fa un selfie durante l’assalto all’Ambasciata americana di Baghdad, il 31 dicembre

 

Un’altra motivazione pseudo-razionale è la deterrenza: infliggere una rappresaglia sproporzionata minacciandone di ancora peggiori, nella convinzione che l’avversario, essendo più debole, abbandoni la partita. Anche qui gli americani condividono con gli israeliani un’illusione venata di “orientalismo”, per non dire di spirito coloniale: che l’avversario islamico, il “terrorista”, capisca solo il linguaggio della forza, che sia destinato a piegarsi purché il livello di violenza impiegato sia intollerabile. Questa illusione ottica nasce dall’attribuire al “barbaro” la propria bassa soglia di sopportazione delle perdite umane e dal sottovalutare la combattività prodotta dalla sete di vendetta, specie se unita al fervore religioso.

Quando il Segretario di Stato Pompeo minaccia di colpire leader avversari anche all’interno dell’Iran, e Trump avverte che sono già stati individuati sul suo territorio bersagli di prima grandezza, fra cui importanti siti culturali, in entrambi i casi per dissuadere la controparte da una qualsiasi rappresaglia contro cittadini o installazioni USA, anche se effettuata da milizie affiliate (proxy), siamo di fronte a questo tipo di deterrenza del più forte, diversa dalla classica deterrenza paritaria della guerra fredda.

Secondo varie fonti di stampa americane, seguendo una prassi affermata, l’eliminazione di Soleimani era stata inserita dal Pentagono nel menù di opzioni sottoposte a Trump come la più estrema, non per suggerirla ma per far apparire accettabili opzioni intermedie. Questo ci dimostra che non solo non ci sono più gli “adults in the room”, ma che prassi burocratiche non temperate da sensibilità politica possono rendere il Pentagono corresponsabile di decisioni rovinose dell’impulsivo Trump.

Fin qui le motivazioni, dichiarate o presunte, senza che possa sfuggire la netta prevalenza di fattori soggettivi, caratteriali: la rabbia, l’impulsività, del capo; la remissività dei suoi stretti collaboratori; la hubris  da potenza coloniale; la mancata analisi delle probabili reazioni e contro-reazioni.

 

Gli effetti nefasti sulla posizione degli Stati Uniti

Passiamo ora a esaminare le conseguenze che già si delineano, tutte contrarie agli interessi dell’America e agli obiettivi politici perseguiti a parole dalla presente Amministrazione.

Primo: Trump aveva abbandonato il trattato multilaterale sul nucleare iraniano e decretato sanzioni severissime al fine di costringere il regime di Teheran ad accettare ulteriori limitazioni, sia sulla durata degli impegni concernenti l’arricchimento dell’uranio, che sull’armamento missilistico. Quanto sta avvenendo è l’esatto contrario: l’Iran, che aveva già reagito contravvenendo ad alcune clausole, ora annuncia di volersi liberare da tutti i lacci dell’accordo. E’ fra l’altro uno schiaffo per gli altri firmatari (quattro dei “P5”, più la Germania): da un lato non vengono minimamente consultati, dall’altro coinvolti nella ritorsione (rottamazione del trattato) in quanto considerati vassalli di Washington, incapaci di esercitare un’influenza moderatrice.

Secondo: l’altro obiettivo della politica di “maximum pressure, con sanzioni economiche di una severità senza precedenti, non giustificate da alcuna inadempienza iraniana alle clausole del suddetto accordo, era quello di costringere Teheran a rinunciare all’espansione della sua influenza nei paesi mediorientali in cui sono presenti popolazioni sciite: Libano, Siria e soprattutto Iraq. Si noti, per inciso un paradosso: è stata proprio l’invasione USA del 2003 a portare gli sciiti al potere a Baghdad e ad aprire la strada all’influenza iraniana. Contro questa eccessiva influenza si erano viste nelle scorse settimane imponenti manifestazioni, sino a provocare la caduta del governo.

Ma dopo il raid del 3 gennaio le forze politiche iraqene si sono riunite nell’ostilità agli USA, e il Parlamento ha chiesto al governo (dimissionario) di espellere dal paese tutte le truppe straniere, e in primo luogo  i 5.200 militari americani. Forse Washington resisterà, ma i prevedibili attacchi contro le sue basi e l’intensificarsi delle tensioni fra sunniti e sciiti potrebbero non lasciarle altra scelta. Il corteo funebre attraverso le città sante della Shia in Iraq e in Iran sembra suggellare l’allineamento dei due paesi in chiave anti-americana.

Terzo: può sembrare incredibile, ma l’obbiettivo ultimo dei “falchi” neo-con, fra cui John Bolton, e dello stesso Trump, è il regime change in Iran, come nel 1953 – quando con l’Operazione Ajax britannici e americani rovesciarono il governo di Teheran, sostituendolo con il regime filo-occidentale dello Scià Reza Pahlavi. Gli europei, così come i Democratici americani, si accontentano invece di un rafforzamento dei “pragmatici”, come il Presidente Rohani e il Ministro degli Esteri Zarif.

Le recenti ondate di protesta represse nel sangue evidenziavano un certo logoramento del regime degli ayatollah; una nuova vittoria delle forze più o meno moderate alle prossime elezioni sembrava probabile. Ordinando l’assassinio dell’”eroe nazionale”, facendone un “martire” (concetto centrale nella religione sciita), Trump è riuscito a compattare la società iraniana nella solidarietà ai pasdaran, obbligando i moderati a giurare di vendicare il loro rivale e mettendo a tacere i contestatori laicisti.

Quarto: Trump aveva promesso di mettere fine alle “stupide guerre” portate avanti dai suoi predecessori e riportare a casa “our boys”. La presenza di alcune migliaia di militari americani in Iraq era però  giustificata dal contrasto a quanto rimane dell’ISIS e dalla necessità di impedire una sua riorganizzazione. In queste operazioni, come già nella presa delle roccaforti del Califfato, c’era una collaborazione di fatto fra l’aviazione americana e le forze di terra iraniane e iraqene (milizie sciite soprattutto), coordinate proprio da Soleimani.

Ora il Pentagono è costretto a spedire altre migliaia di soldati in Medio Oriente, ma non per rafforzare la campagna anti-Daesh: anzi, viene annunciato l’arresto di quelle operazioni, perché tutte le energie vanno concentrate sull’autodifesa. E ciò dopo che Washington ha dato via libera ad Ankara (lo scorso ottobre) per neutralizzare i curdi siriani, già in prima linea nella lotta al Califfato.

Un soldato USA dell’82a Divisione Aviotrasportata riposa nelle caserme di Fort Bragg prima della partenza per il Medio Oriente

 

E’ dunque evidente quanto il “colpo basso” del 3 gennaio sia controproducente rispetto agli interessi degli Stati Uniti e le policy proclamate dall’attuale Presidente, prima ancora che scattasse l’inevitabile rappresaglia che è già in parte arrivata con i missili contro le due basi americane a nord-ovest di Baghdad e nella zona curdo-iraqena di Erbil. Ma quali sono le probabilità di una vera e propria guerra per effetto di questa rappresaglia e della successiva spirale di reciproche reazioni? Uno scenario plausibile è quello di un acuirsi dell’ostilità fra sunniti e sciiti in Iraq, fino a spingere il Paese sull’orlo di una nuova guerra civile; con l’aggravante di una rinascita di Daesh.

 

La guerra aperta, eventualità ancora lontana

Malgrado l’emotività di entrambe le parti, non sembrano invece esserci i presupposti per uno scivolamento verso un conflitto diretto fra i principali protagonisti, un nuovo 1914. A meno che uno di essi faccia una mossa molto azzardata, come sarebbe da parte iraniana la chiusura dello Stretto di Hormuz o un massiccio bombardamento su Tel Aviv, entrambe eventualità alquanto improbabili. Oppure l’attuazione della minaccia di Trump di annientare decine di importanti obiettivi in territorio iraniano, compresi siti appartenenti al patrimonio culturale, anche in risposta ad attacchi di proxy in paesi terzi senza un diretto coinvolgimento dell’Iran.

Teheran ha a disposizione tutto un ventaglio di obiettivi militari americani da colpire nella regione, oltre ai due già colpiti pur senza fare vittime americane (probabilmente con deliberata cautela): sia mediante droni o missili, sia delegando milizie sciite. Non tanto una singola azione spettacolare, ma piuttosto una serie di attacchi tali da minare il morale dell’avversario. Sarebbe la scelta più razionale, in quanto funzionale al disegno di spingere gli Stati Uniti a ritirarsi dal Medio Oriente. Qualora quei bersagli si rivelassero troppo ben difesi, o l’opinione pubblica reclamasse una vendetta meno asettica, sono pensabili attentati contro ambasciate, navi, o personalità di rilievo. Senza che si possa escludere del tutto il coinvolgimento di obiettivi israeliani. Indubbiamente ci saranno contro-rappresaglie, e si porrà il problema di moderare l’escalation.

Un compito cui dovranno accingersi senza timidezze i governi europei, anche in consultazione con Mosca e Pechino. E a Washington il Congresso dovrà rivendicare i propri poteri, respingendo la tesi che la competenza a decidere una guerra spetta ormai al Presidente in base alla delega datagli nel 2001 (Afghanistan) o 2002 (Iraq).

Difficile prevedere gli effetti di questa crisi sulle sorti elettorali. Eventuali massicce perdite umane per rappresaglie chiaramente riconducibili alla morte di Soleimani possono nuocere, a breve termine, alla popolarità di Trump; ma anche spingerlo a riconquistarla con una fuga in avanti, assumendo il ruolo vincente (vedi George W. Bush) di war president.