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I dazi doganali, panacea impossibile di tutti i mali

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La decisione dell’Amministrazione Trump di introdurre, e successivamente sospendere, i dazi doganali imposti nei confronti dei partner commerciali degli Stati Uniti, ha riaperto un interrogativo che da tempo alberga nella mente di esperti, analisti, e operatori economici: siamo di fronte all’inizio della fine della globalizzazione? Oppure, a cadere sotto la scure del protezionismo è il libero commercio, nella forma in cui l’abbiamo sempre conosciuto? In effetti, il ricorso ai dazi presenta una duplice valenza, con finalità spesso eterogenee e contraddittorie, ma che sul piano politico convergono verso un medesimo obiettivo: rafforzare la posizione degli Stati Uniti nello scenario internazionale, in aperta collisione con il principio che aveva regolato quell’ordine globale e che la stessa Casa Bianca aveva contribuito a modellare.

Da strumento economico, finalizzato alla correzione degli squilibri della bilancia commerciale o al rafforzamento dell’industria nazionale, la seconda Presidenza Trump ha interpretato le tariffe come una leva di coercizione economica. Un’arma di pressione da impiegare nelle trattative bilaterali, per favorire l’ottenimento di concessioni da parte di Paesi terzi, anche in ambiti estranei o solo marginalmente collegati agli scambi: dalla difesa in Europa, al controllo delle frontiere con il Messico, sino al traffico di oppioidi dalla Cina. Una specie di panacea di tutti i mali degli Stati Uniti. Non stupisce dunque come il pensiero trumpiano valorizzi lo sviamento dei dazi dalla tradizionale funzione impositiva verso una finalità equitativa. Con l’esito finale rimesso all’apprezzamento del Commander in Chief, desideroso di ripristinare lo status quo, un’ipotetica età dell’oro antecedente alle ingiustizie patite dagli Stati Uniti per mano di rivali e alleati.

 

Dal trionfo di McKinley ai giorni nostri

Nell’epica di Trump, il campione per eccellenza dei dazi resta, da anni, William McKinley. Presidente dal 1897 al 1901, McKinley fu espressione dell’ala protezionista del Partito Repubblicano, più legata agli interessi degli industriali. Oggi è imprescindibile un’analisi della sua esperienza politica, per comprendere l’importanza delle tariffe nella Gilded Age: un’epoca di grande crescita economica e di altrettanto grandi diseguaglianze, che vide l’ascesa degli Stati Uniti come potenza globale. In quegli anni, difficilmente ripetibili nella storia americana, l’industria manifatturiera prosperò grazie a politiche protezioniste ben calibrate, a un flusso costante di lavoratori immigrati dall’Europa e all’ assenza di competizione esterna da parte delle economie del vecchio continente.

Così gli Stati Uniti, usciti indeboliti dalla guerra civile, riuscirono in un trentennio a raggiungere una sostanziale autosufficienza, oggi ribattezzata autonomia strategica, surclassando l’egemonia dell’Impero britannico. L’approccio di McKinley affondava le radici nell’American System di Alexander Hamilton, di cui lo sfortunato Presidente dell’Ohio fu l’ultimo autorevole interprete. Nonostante il mondo non sia più quello della fine dell’Ottocento, alcuni concetti teorizzati da McKinley nel Tariff Act del 1890 sono stati riproposti da Trump in campagna elettorale e trasformati in politiche, in particolare con l’imposizione di dazi su acciaio, alluminio e prodotti cinesi. Nella narrativa della Casa Bianca, le tariffe rievocano il mercantilismo della Gilded Age e mirano a proteggere l’industria manifatturiera americana dalla concorrenza estera, contrastando pratiche di dumping ritenute dannose per la sicurezza nazionale.

Se in passato era l’Europa a minacciare il mercato americano con i suoi prodotti, oggi il pericolo è rappresentato in primo luogo dalla Cina, ma anche da tutti i Paesi che vantano un surplus commerciale con Washington, ovvero la stragrande maggioranza degli Stati, con poche eccezioni come Regno Unito, Emirati Arabi e Australia.

Il mondo attuale, tuttavia, ricorda solo lontanamente l’epopea di McKinley. Gli Stati Uniti ricoprono un ruolo di superpotenza all’epoca inimmaginabile, anche per i più ottimisti. Le catene del valore, segmentate su più continenti e rese ancora più complesse dalla rivoluzione digitale, rendendo il decoupling quasi impossibile. Il dollaro ha poi preso il posto della sterlina come valuta globale, e gli accordi del WTO voluti da Washington hanno costruito, seppur con difetti evidenti, l’unica cornice multilaterale per risolvere le controversie commerciali globali degli ultimi anni. A ciò si aggiunge che i mercati dei capitali sono oggi di dimensioni e influenza incomparabilmente maggiori, e Wall Street esercita un peso ben diverso rispetto alla Borsa travolta dal panico del 1893. All’epoca il repentino crollo della fiducia nei mercati fu il risultato di un’economia poco integrata e a dinamiche creditizie fragili, ben lontane dalla scala e dalle complessità odierne.

 

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La stessa figura di McKinley presenta contorni che divergono, almeno in parte, dal ritratto offerto da Trump. Karl Rove, storico alfiere del bushismo, nel fortunato saggio The Triumph of William McKinley, sottolinea come al Tariff Act del 1890 seguì un progressivo ripensamento, che vide nella reciprocità il principio guida per l’imposizione dei dazi commerciali. Fu proprio il leader repubblicano a cavallo tra i due secoli a sostenere il passaggio da un protezionismo rigido, fondato su barriere all’ingresso, a un modello più aperto agli scambi, culminato con la nomina del primo U.S. Trade Representative e la firma di accordi commerciali con l’Impero britannico, la Francia e l’Argentina. Un cambio di rotta che McKinley espresse anche nel suo ultimo discorso all’Esposizione Panamericana di Buffalo del 1901, dove proclamò che gli Stati Uniti vivevano in “uno stato di prosperità senza precedenti” e sottolineando che il motivo non fossero i dazi, ma “la nostra capacità di produrre”.

 

Effetti economici e promesse mancate

Sebbene la Casa Bianca possa giustificare il ricorso ai dazi per ragioni di natura commerciale o scopi politico-negoziali, le conseguenze negative di un uso indiscriminato delle barriere tariffarie non potrebbero essere altrettanto legittimate agli occhi dell’opinione pubblica che, per quanto polarizzata, manifesta i primi segni di cedimento. La diversità di opinioni sugli effetti dei dazi ha toccato intensità manichee alla vigilia del cosiddetto Liberation day, in cui sono state annunciate le tariffe dirette contro tutto il mondo, per poi rapidamente attenuarsi dopo il tracollo dei mercati azionari e l’aumento degli interessi sui treasuries, che hanno costretto l’Amministrazione Trump ad una parziale marcia indietro. Se è assodata la consapevolezza dello studio ovale sulle gravi conseguenze che un’ulteriore escalation protezionista comporterebbe per gli Stati Uniti e l’intero contesto economico globale, ogni ulteriore analisi sugli effetti dei dazi verrebbe frustrata dall’elevata incertezza che circonda i programmi dell’Amministrazione Trump.

Come noto, gran parte degli economisti ha sollevato dubbi sull’efficacia dei dazi nel correggere gli squilibri di un’economia fortemente globalizzata come quella degli Stati Uniti, dove il deficit commerciale nei beni, in parte compensato da un surplus nei servizi, evidenzia l’obsolescenza di una strategia protezionistica che richiama soluzioni del XIX secolo. Il rischio è che l’eterogenesi dei fini trionfi sulle legittime aspettative dei blue collar, i quali, invece di beneficiare del ritorno della produzione manifatturiera, vedrebbero il loro potere d’acquisto eroso da una tassa regressiva che, in dosi elevate, potrebbe annientare ciò che resta della middle class nelle aree dell’Heartland più colpite dalla deindustrializzazione.

 

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L’eccessivo deficit commerciale, in particolare, rappresenta il principale equivoco per i sostenitori della finalità equitativa dei dazi. La bilancia delle partite correnti riflette solo parzialmente gli squilibri strutturali dell’economia americana, che derivano in larga misura dall’eccezionalismo del dollaro, ovvero dal suo ruolo di principale valuta di riserva e di scambio a livello globale. Questo status comporta una domanda costante di dollari da parte dei mercati internazionali, alimentando flussi di capitale verso gli Stati Uniti e mantenendo elevato il valore del biglietto verde. A ciò si aggiunge il comportamento dei consumatori americani, tradizionalmente più inclini alla spesa che al risparmio, che contribuisce ad ampliare ulteriormente il disavanzo commerciale. Un atteggiamento che è destinato a persistere anche in presenza di barriere tariffarie. Anzi, l’introduzione di dazi potrebbe paradossalmente rafforzare il dollaro rispetto ad altre valute, a causa dell’afflusso di capitali attratti dalle aspettative di protezione interna e da rendimenti relativamente più alti. Questo apprezzamento peggiorerebbe la competitività delle esportazioni americane, riducendo l’efficacia dei dazi stessi e rafforzando l’idea che la decisione dell’amministrazione Trump risponda più a logiche negoziali di burden sharing con gli alleati commerciali che a una reale possibilità di rilanciare l’occupazione, in un’industria manifatturiera peraltro sempre più capital-intensive e automatizzata.

Allo stesso modo, l’idea di coprire o anche solo arrestare il disavanzo federale imponendo una tassa del 20% sulle importazioni risulta impraticabile. A titolo esemplificativo, nell’anno fiscale 2024, il governo degli Stati Uniti ha speso un totale di 6400 miliardi di dollari, mentre il valore dei beni importati negli USA è pari a 3300 miliardi di dollari. D’altronde, come ricorda lo stesso Karl Rove, nel 1900 la spesa federale ammontava appena al 3% del PIL. Non sorprende, dunque, che ai tempi di McKinley e dei suoi predecessori quasi la metà delle entrate dell’erario provenisse dai dazi, mentre oggi questa quota si è ridotta all’1,9%.

 

Il nodo del dollaro

Le tensioni strutturali create dalla globalizzazione hanno evidenziato come non tutti i Paesi protagonisti del libero commercio abbiano effettivamente aperto i propri mercati. Nel caso della Cina, l’influenza dominante del Partito Comunista ha consentito al governo di Pechino di mantenere un controllo pressoché totale sia sui rapporti con partner commerciali e investitori esteri, che sulla politica monetaria. Così, mentre nell’area euroatlantica il Washington Consensus veniva seguito in modo spesso eccessivamente dogmatico, in Oriente sin dall’ingresso nel WTO prendeva forma un sistema misto, che combinava la manipolazione valutaria con quella della domanda interna. In tal modo la Cina ha sviluppato un’economia fortemente orientata verso l’export, sostenuta da una sovraccapacità produttiva rivolta ai mercati esteri e da una serie di ostacoli alla libera circolazione dei capitali, che costringevano al reinvestimento del surplus nei Paesi importatori dei prodotti cinesi, come gli Stati Uniti.

Il ricorso ai dazi rischia di rivelarsi un rimedio dal rapporto costi/benefici incerto, con rilevanti implicazioni morali per una nazione polarizzata come gli Stati Uniti, ma di dubbia efficacia nel risolvere gli squilibri strutturali che hanno causato il deficit commerciale del Paese. In un contesto di estrema interdipendenza, che vede le istituzioni multilaterali sfibrate ma ancora operative, le tariffe dovrebbero cercare di invertire il declino di un’industria manifatturiera ormai distante dagli echi del passato. Il tutto, preservando la supremazia finanziaria del dollaro, che dipende dall’attrattività del mercato americano per gli investimenti esteri, dalla stabilità macroeconomica e politica e dalla fiducia nel sistema di rule of law statunitense. Politiche eccessivamente protezionistiche o percepite come arbitrarie rischiano di erodere questa fiducia e incentivare la diversificazione valutaria da parte di altri attori globali. Le tariffe, dunque, dovrebbero essere concepite non solo per ripristinare una reciprocità attesa da tempo, ma anche per condividere il peso extra-commerciale con gli alleati, accusati di non aver investito sufficientemente in difesa o nella lotta contro la Cina, considerata il rivale del secolo.

Tuttavia, si tende a considerare i dazi come l’unico strumento per contrastare una serie di condotte di Pechino correttamente identificate come lesive, tra cui il dumping, le violazioni della proprietà intellettuale o il traffico di oppioidi.

Nella visione delineata da Stephen Miran, Presidente del Council of Economic Advisers e autore del famigerato documento “A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System”, una riforma dell’architettura commerciale globale diventa inevitabile per correggere gli squilibri provocati dalla sopravvalutazione del dollaro, senza rinunciare allo status di valuta di riserva che conferisce agli Stati Uniti un potere finanziario senza eguali. Partendo dal presupposto che il cronico disavanzo delle partite correnti americane derivi da una domanda strutturale e rigida di attività denominate in dollari, Miran sostiene la necessità di un riallineamento valutario per sostenere la competitività dell’export e rilanciare la base manifatturiera del Paese.

I dazi diventano così uno strumento funzionale a riequilibrare le differenze nei tassi di cambio, trasferendo parte dell’onere sui partner commerciali. Un eventuale apprezzamento del dollaro contribuirebbe a neutralizzare le pressioni inflazionistiche interne, facendo ricadere il costo dei dazi sui Paesi esportatori, mediante una perdita di potere d’acquisto che non graverebbe sui consumatori americani. Tuttavia, nella visione di Stephen Miran, anche un indebolimento del dollaro potrebbe essere funzionale al riequilibrio dei rapporti con i partner commerciali, migliorando la competitività dell’export americano. Nel lungo periodo, questo obiettivo verrebbe raggiunto con il “Mar-a-Lago Accord”, ispirato al “Plaza Accord” di Ronald Reagan del 1985, che archivierebbe definitivamente il sistema di Bretton Woods, costringendo gli alleati degli Stati Uniti a riequilibrare i propri rapporti con Washington, istituzionalizzando il concetto di burden sharing sul piano economico e militare, seppur all’interno di una cornice multilaterale concordata con la Casa Bianca.

 

Le conseguenze dell’insipienza

La visione ottimistica di Stephen Miran si è però scontrata con una realtà ben più grama. Si può dire che, finora, i dazi imposti da Trump abbiano prodotto un’eterogenesi dei fini, generando risultati opposti rispetto alle aspettative. Non a caso l’Amministrazione americana è stata costretta a quello che in molti hanno descritto come un frettoloso passo indietro con l’Unione europea e la Cina. Le tariffe introdotte nei primi cento giorni con l’obiettivo di rafforzare il dollaro hanno avuto l’effetto opposto: il biglietto verde si è svalutato mentre l’euro si è apprezzato. I Treasuries a lunga scadenza hanno perso valore e i rendimenti sono aumentati, per poi stabilizzarsi alla luce della parziale ricomposizione delle relazioni commerciali.

In ultima analisi, la tendenza emersa segnala un mercato sempre più nervoso e meno disposto ad assorbire nuovo debito americano, senza che venga riconosciuto un adeguato premio di rischio per l’instabilità politica. Un fatto di per sé inedito per gli Stati Uniti. Nell’attuale scenario, diventa difficile ritenere la perdita di valore del dollaro uno scenario win-win, tantopiù se accompagnata da fenomeni inflazionistici e dal disinteresse per i Treasuries. Gli investitori sembrano più preoccupati dal rischio di recessione sino ad oggi scongiurato e dall’aumento dei prezzi delle importazioni, piuttosto che dalla possibilità per la Casa Bianca di “rinegoziare” l’architettura finanziaria globale e il ruolo del dollaro in un mondo post-Bretton Woods.

Se la reazione dei mercati dovesse ripetersi in circostanze sovrapponibili, diventerebbe evidente come una guerra commerciale su vasta scala non giovi né ai consumatori americani né alle fabbriche cinesi. L’inadeguatezza dei dazi, intesi come strumento di ripristino del level playing field, dovrebbe spingere a valutare alternative più efficaci e coerenti con l’interdipendenza dell’economia globale. Il sistema economico mal tollera soluzioni ottocentesche, efficaci forse negli anni ’50 del Novecento, ma oggi sempre più obsolete, rivelatesi un’arma a doppio taglio che coglie solo parzialmente le debolezze di Pechino. Per questo motivo la Casa Bianca dovrebbe distinguere gli alleati dagli avversari, evitando reazioni controproducenti e sospendendo a tempo indeterminato le misure tariffarie contro l’Unione europea, concentrandosi così sulla Cina. Ciò eviterebbe che Washington restasse esposta alle turbolenze di una guerra commerciale combattuta su più fronti, a tempo indeterminato e senza distinzioni strategiche.

 

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In conclusione, i dazi si dimostrano uno strumento inadeguato per contenere contemporaneamente l’ascesa di Pechino e riequilibrare i rapporti di forza con l’Unione Europea e gli altri alleati. Il ricorso generalizzato alle tariffe presenta i connotati di una tassa regressiva per i consumatori americani, danneggia le catene del valore e aumenta l’inflazione, senza che si palesi alcun vincitore. Per rispondere in modo realistico alla sfida posta dalla Cina, oltre a promuovere un approccio multilaterale con gli alleati basato su regole condivise e destinate a non essere ridiscusse (pacta sunt servanda), gli Stati Uniti potrebbero considerare l’introduzione di controlli selettivi sul conto capitale.

Tali misure rappresenterebbero un’extrema ratio per limitare il reinvestimento dei profitti da parte di Paesi con consistenti surplus delle partite correnti, come la Cina, nel mercato finanziario americano. Sebbene non incidano direttamente sul commercio di beni, andrebbero attuate con cautela e in coordinamento con i partner europei e asiatici, per evitare ripercussioni negative sulla stabilità del sistema economico globale. L’obiettivo sarebbe incentivare Pechino a riequilibrare il proprio modello di crescita nel medio e lungo periodo, orientandolo maggiormente verso la domanda interna, rispetto ad un sistema export-driven che è alla base delle asimmetrie della globalizzazione.