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Gli osservatori OSCE e il conflitto nel Donbass

2,015

Uno dei compiti principali affidati all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) è la prevenzione dei conflitti. Il che non vuol dire che lo scoppio di una guerra come quella in corso significhi per l’OSCE un fallimento. Così come altre guerre non dimostrano l’inutilità delle Nazioni Unite. L’efficacia di una organizzazione internazionale dipende dalla volontà dei principali azionisti di cooperare e rispettare le regole.

In che misura l’OSCE ha almeno contribuito a mantenere una pace sia pur precaria nel Donbass dal 2014 alla fine del 2021? Premesso che alla fase più acuta del conflitto mise fine l’azione diplomatica franco-tedesca (accordi di Minsk del 2014-15), né è pensabile che una associazione di 57 stati con diritto di veto, fungesse da regista del negoziato e da mediatore, va detto che nel 2014 l’OSCE reagì prontamente, creando due strumenti di monitoraggio per limitare o scoraggiare la ripresa degli scontri bellici.

Personale OSCE in Ucraina

 

Uno, meno noto, è la Border Observation Mission, istituita nel luglio 2014, con il compito di osservare (ma senza il potere di impedire) il passaggio di convogli russi verso le due regioni secessioniste di Donetsk e Luhansk. Ma con uno staff internazionale di una ventina di persone, dislocate presso due soli valichi, il suo impatto non poteva che essere trascurabile. Di tutt’altra entità la seconda operazione: la Special Monitoring Mission (SMM), un corpo di osservatori civili (circa 400800, ma non tutti concentrati nel Donbass), autorizzati ad attraversare la linea di contatto e incaricati di riferire sulle violazioni del cessate-il-fuoco e facilitare il dialogo a livello locale.

Di fatto la libertà di circolazione e l’operatività delle pattuglie SMM veniva ostacolata in vario modo dai secessionisti: intimidazioni, false accuse di spionaggio, detenzioni, mine, tiri di artiglieria. In parte vi si ovviava mediante l’impiego di droni, ma anche questi venivano ostacolati, fra l’altro tentando di abbatterli o disturbando le loro frequenze radio con apparecchiature di guerra elettronica (jamming) russe. In base a questa attività di sorveglianza, la SMM inviava a Vienna rapporti quotidiani, che registravano le numerose violazioni, ma senza mai attribuire ad una parte la responsabilità delle provocazioni.

 

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Le violazioni si contavano a centinaia o migliaia ogni settimana. Addiritttura 7.591 dal 14 al 20 febbraio, con un picco di oltre 1.500 al giorno dal 17 al 20.

Una alquanto tediosa contabilità, dunque, non una funzione di arbitro nei periodici scambi polemici in seno al Consiglio Permanente dell’OSCE. Entro questi limiti, la SMM ha però avuto una certa funzione di deterrente rispetto ad azioni offensive e alla loro spiralizzazione. Ha mantenuto lo stallo lungo una linea di demarcazione che non corrispondeva ad un confine storico o naturale, e che entrambe le parti avrebbero avuto interesse a spostare con una controffensiva. Ha inoltre garantito il movimento delle persone tra le due zone, ed ha alleviato le condizioni precarie della vita quotidiana, ad esempio facilitando lavori di manutenzione di infrastrutture civili essenziali, come gli impianti di fornitura di acqua potabile, elettricità e gas.

Ha stabilizzato, in sostanza, un conflitto congelato, analogo a quelli meno noti di Abkhazia e Sud-Ossezia, che erano durati per una quindicina di anni fino a quando nel 2008 Mosca decise di tagliare entrambi i nodi gordiani con una operazione militare. Operazione che però, a differenza di quella iniziata il 24 febbraio scorso, rispondeva ad un tentativo del presidente georgiano di tagliare il secondo dei due nodi.

La Russia ha tentato di giustificare la sua aggressione all’Ucraina come una operazione chirurgica necessaria a metter fine a una lunga e sanguinosa guerra a bassa intensità che aveva già prodotto 14.000 morti; e qualche osservatore occidentale ha involontariamente portato acqua al mulino di questa narrativa evocando quella cifra e parlando di “guerra dimenticata”. In realtà i 14.000 erano  quasi tutti  caduti nella fase calda del conflitto, nel 2014; dopodiché quello documentato dalla SMM è stato un lento stillicidio che in nessun modo può essere invocato come giustificazione per un intervento militare dall’estero. Nelle sette settimane che precedettero l’invasione (più precisamente da inizio gennaio al 20 febbraio) la SMM ha registrato due vittime civili, una per parte.

Finché la Russia si limitava ad aiutare i ribelli a difendere le loro posizioni contro i tentativi ucraini di riconquista, la missione ha potuto svolgere la sua funzione di mantenere ad un livello moderato le ostilità. Ma una volta scattata l’invasione, perdeva la sua ragion d’essere. Anche le operazioni di peacekeeping di natura militare (come ad es. UNIFIL al confine israelo-libanese) funzionano in tempi di precaria tregua, impedendo che incidenti isolati portino a una spiralizzazione; ma quando uno dei contendenti decide di invadere, si fanno da parte. A maggior ragione la SMM, composta da civili disarmati, il 24 febbraio non poteva che procedere all’immediata evacuazione.

Già nel settembre 2021 era stata liquidata la Border Observation Mission, a seguito del veto russo all’estensione del suo mandato. La SMM, che aveva una presenza in tutte le regioni del paese, non è stata smantellata subito, bensì a partire dal 31 marzo 2022, data di scadenza del suo mandato, anche in questo caso per  volere di Mosca. La quale ha inoltre imposto (come in Georgia nel 2008) la chiusura della normale field mission, denominata “Office of the Project Coordinator in Ukraine“, attiva a Kiev dal 1999 e da tempo invisa al governo russo che la accusava di aver fomentato con i suoi progetti di assistenza alle ONG la “rivoluzione arancione” del 2004.

L’OSCE, che negli ultimi otto anni ha dedicato buona parte delle sue energie all’Ucraina, e ne ha ricavato una visibilità di cui si sentiva la mancanza, è al momento totalmente fuori gioco per quanto concerne la gestione del conflitto. Se e quando si aprirà un tavolo negoziale per l’armistizio, non sarà in questo ambito. Ha tuttavia dato un forte segnale della volontà di continuare ad assistere l’Ucraina, con il recente lancio di un Ukraine Support Programme finanziato con contributi volontari extra-bilancio: si tratta di 25 progetti nell’arco di tre anni per un valore di 29 milioni di euro.

 

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È difficilissimo intravedere quali saranno gli assetti della regione nel dopo-guerra, e l’eventuale ruolo dell’OSCE. Ma per gestire il rispetto degli accordi di armistizio sembrerebbe logico ricorrere ad una ricostituita SMM sotto supervisione dell’organizzazione viennese.

Guardando al lungo termine, è ancora più difficile immaginare oggi la ricostruzione di un rapporto di cooperazione fra l’Occidente e la Russia, cui si oppongono enormi ostacoli psicologici e politici, ma che sarebbe nell’interesse di entrambe le parti, condannate dalla geografia a coesistere. Se prevarrà la ragione, la cornice entro cui avviare quel processo, come fu all’inizio degli anni settanta, dopo l’invasione della Cecoslovacchia (con l’allora CSCE), non può che essere l’OSCE, pur con tutti i suoi limiti.