international analysis and commentary

A Gaza, disastro umanitario

1,183

Il 7 ottobre 2023, il “Movimento di resistenza islamica” – Hamas – sferrava contro Israele uno dei più sanguinosi attacchi terroristici che la Storia moderna ricordi. Alla fine dell’ “Alluvione Al-Aqsa”, durata appena un giorno, facevano il giro del mondo le istantanee di un massacro: 1139 israeliani erano stati uccisi, 250 presi in ostaggio, una campagna di stupri e violenze brutali aveva colpito decine di donne. Le “Spade di Ferro” di Tel Aviv trafiggevano Gaza, letali, poche ore dopo. Era l’inizio del conflitto con il più alto tasso di mortalità giornaliera mai registrato nel XXI secolo.

Gaza ora è un cimitero. Sono ormai più di 30mila i morti, secondo il Ministero della Salute di Gaza (ad oggi unica fonte disponibile nel merito). Escluse le migliaia di corpi intrappolati sotto le macerie, che restano fuori dai bollettini ufficiali. Oltre 70mila i feriti, molti in condizioni gravissime.

Aiuti umanitari lanciati dal cielo su una strada di Gaza

 

Il numero dei palestinesi uccisi dalle azioni di ritorsione indiscriminata dell’esercito israeliano contro la Striscia cresce ad un ritmo medio di 250 persone al giorno. La percentuale delle vittime civili è altissima, circa il 70%. Ogni 24 ore passate senza un cessate il fuoco, contiamo più o meno 100 cadaveri di bambini e una decina di ragazzini amputati, molti senza anestesia, di una o entrambe le gambe. Ogni ora muoiono due madri. Sono centinaia i morti tra il personale delle Nazioni Unite, molti di più gli operatori sanitari uccisi, troppi i giornalisti. Almeno 19 mila bambini sono rimasti soli nel mezzo di questa guerra.

L’offensiva israeliana su Gaza è anche considerata una delle più distruttive di quest’epoca, che pure di conflitti brutali ne ha conosciuti non pochi. Uno studio satellitare condotto dai ricercatori della Oregon State University e della City University di New York calcola che al 2 febbraio tra il 53 e il 65% di tutti gli edifici palestinesi era già stato raso al suolo. La percentuale è fissata tra il 73 e l’84% a Gaza City, tra il 69 e l’81% nel Nord del Paese. Case, scuole, ospedali, strutture religiose, cimiteri, campi profughi, rifugi. La furia di Israele si abbatte su ogni cosa.  Si spara persino sulle bocche affamate in fila per i pochissimi aiuti umanitari che, sempre troppo tardi e tra troppi inaccettabili ostacoli, riescono a entrare nella Striscia. E i convogli, il personale e le strutture mediche sono nel mirino di un “modello di attacchi intenzionale o indicativo di sconsiderata incompetenza”, come tuona Medici Senza Frontiere tratteggiando i contorni di “una guerra ad ogni costo” combattuta contro la popolazione civile.

I sopravvissuti sono ridotti a condizioni umanitarie che vanno al di là dell’immaginabile: “la vita dei civili a Gaza è miserabile”, per usare le parole del capo dell’Ufficio ONU per i Diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati Ajith Sunghay.

I combattimenti incessanti,  gli ordini di evacuazione, gli attacchi diffusi e sistematici alle infrastrutture civili, che sono il segno distintivo di questo conflitto che è un brulicare di crimini internazionali, hanno già fatto quasi 2 milioni di sfollati interni, cioè praticamente oltre tre quarti della popolazione della Striscia. Sono soprattutto donne, e la maggior parte è già stata costretta a fuggire almeno due volte sulla spinta dell’esercito israeliano che si muove da Nord.

Circa 1,5 milioni di persone, metà delle quali sono bambini, ora sopravvivono schiacciate e stremate nei 64 chilometri quadrati del governatorato di Rafah – che è la porzione più a Sud della Striscia al confine con l’Egitto – senza cibo, acqua, elettricità, ripari adeguati, medicine né soccorsi.

Già prima, in un contesto di repressione sistematica e sulla scia di un blocco lungo 17 anni, l’insicurezza alimentare era realtà per metà della popolazione di Gaza e tantissimi dipendevano dagli aiuti umanitari. E la situazione sul fronte dei diritti umani era gravemente precaria. Poi, lo scorso 9 ottobre, Israele ha deciso per l’assedio totale. E a Gaza adesso non c’è più niente, solo il rumore di qualche migliaio di bombe “stupide”.

A questo punto, stando al più recente rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification, non c’è più una singola persona a Gaza che non stia soffrendo la fame, non un bambino sotto i cinque anni che non stia correndo veloce incontro alla malnutrizione grave. E un quarto della popolazione, di fame, sta morendo. Nell’enclave palestinese vive l’80% delle persone in carestia o fame catastrofica di tutto il Pianeta.

Non ha precedenti che un’intera popolazione civile soffra la fame in modo così completo e rapido. Israele sta distruggendo il sistema alimentare di Gaza e sta usando il cibo come arma contro il popolo palestinese, è il J’accuse dei Relatori speciali ONU, sostenuto dai gruppi internazionali per i diritti umani e dai maggiori esperti della materia – tra gli altri, il direttore esecutivo della World Peace Foundation, Alex de Waal, e la fondazione legale internazionale Global Rights Compliance.

 

Leggi anche: Fame e carestia come arma di guerra

 

Il 42,6% dei terreni coltivati di Gaza – così ha riferito al Consiglio di Sicurezza ONU, la scorsa settimana, il Vicedirettore generale FAO Maurizio Martina – è stato danneggiato dalle operazioni militari. Il bestiame si sta decimando e ogni attività di pesca è ormai impossibile. Un quarto dei pozzi è stato distrutto, come centinaia di ettari di serre.

Nel Nord del Paese non c’è più un panificio operativo: a sostituire la farina è da settimane il mangime per animali, finché ce ne sarà. Mentre le più aggiornate stime del Global Nutrition Cluster dicono che un bambino su sei sotto i due anni già soffre di deperimento, che è la forma di malnutrizione più pericolosa per la vita, l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari umanitari denuncia che la gran parte delle richieste di accesso per le missioni umanitarie dirette a nord di Wadi Gaza continua a essere respinta dalle autorità israeliane; le questioni di sicurezza sono tanto gravi che il World Food Programme è costretto a sospendere le consegne di aiuti nell’area. A Sud, dove ora infuria la battaglia, la situazione non è meno disperata: “le famiglie sono costrette a mangiare uccelli, foglie degli alberi, persino i resti di cibo mangiato dai topi”, segnala Save the Children.

L’accesso all’acqua pulita e potabile, poi, è un miraggio ovunque. C’è in media una doccia ogni 4.500 persone e un bagno ogni 220, riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità in allerta per il tasso di malattie infettive che sale vertiginosamente, soprattutto tra i più piccoli. E UNICEF avverte: di acqua buona da bere ai bambini ne è rimasta “appena una goccia”.

Intanto, il sistema sanitario è crollato. Gli ospedali rimasti “parzialmente operativi” sono troppo pochi per far fronte agli enormi bisogni di cura della popolazione. Sono solo un paio i centri ancora in grado di fornire servizi di maternità in tutto il territorio, le donne pronte a partorire oltre 50mila.

Insomma, “Gaza è semplicemente diventata inabitabile”, come aveva chiarito già due mesi fa il Sottosegretario generale per gli Affari umanitari e Coordinatore degli aiuti d’Emergenza Martin Griffiths.

 

Leggi anche: Gaza and the challenges of Western support to humanitarian aid

 

Questa è la “situazione apocalittica” – così la descrivono gli esperti ONU – guardando alla quale diversi Paesi (almeno 15 al 31 gennaio, dagli Stati Uniti all’Australia, compresi Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito) hanno  sospeso i loro finanziamenti all’UNRWA, spina dorsale della risposta umanitaria a Gaza, sulla base delle accuse di coinvolgimento negli attacchi terroristici del 7 ottobre mosse da Israele contro una decina delle migliaia di suoi dipendenti.

In questi giorni si lavora su una delicatissima tregua, che possa anche scongiurare l’infiammarsi di un più vasto conflitto in tutta la regione mediorientale, già attraversata da una pericolosa guerra di nervi e da fiammate di combattimenti armati in Iraq, Libano, Giordania, Yemen. Un accordo parrebbe essere lontano ancora settimane: a migliaia di morti di distanza.

E con Rafah che nelle decise promesse del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è il prossimo obiettivo di un’imminente incursione di terra (attesa per domenica) per la “vittoria totale” su Hamas, ai civili non resterà alcun “più a Sud” dove rifugiarsi.

Sarebbe una carneficina, è il coro inascoltato di leader internazionali e gruppi per i diritti umani. Si pianterebbe “l’ultimo chiodo sulla bara degli aiuti umanitari”, insiste il Segretario generale ONU Antonio Guterres. Per non parlare degli scenari di nuovo esodo forzato che “sarebbe una catastrofe per i palestinesi, per l’Egitto, e per un futuro processo di pace”, nelle parole dell’Alto commissario ONU per i Rifugiati Filippo Grandi.

Gli appelli perché la comunità internazionale, tutta, prenda una ferma posizione sugli scempi a Gaza, continuano però a cadere nel vuoto. Poche settimane fa, una “dichiarazione transatlantica” (ricevuta dalla BBC e in Italia dal Corriere della Sera) siglata da almeno 800 tra funzionari e diplomatici statunitensi ed europei dichiarava il rischio che con le loro politiche, i governi occidentali alleati di Israele possano farsi complici di “una delle più gravi catastrofi umanitarie del secolo” che comprende, potenzialmente, scenari di pulizia etnica e genocidio. “I nostri governi hanno dato appoggio pubblico, diplomatico e militare a Israele, senza reali condizioni o senza che debba rendere conto di nulla. E di fronte alla catastrofe umanitaria, hanno fallito nel chiedere un cessate il fuoco e la fine del blocco all’ingresso di cibo, acqua e medicine necessari a Gaza”, è scritto.

Al giro di boa della 20esima settimana di conflitto, lanciando l’ennesimo appello per un immediato e prolungato cessate il fuoco, il Segretario Guterres non ha mancato di sottolineare quanto neppure l’invocazione dell’articolo 99 della Carta delle Nazioni Unite (è successo solo sei volte dal 1945) sia stato abbastanza per smuovere il Consiglio di Sicurezza sulla questione, fermo “in una situazione di stallo e incapace di agire sulle questioni più significative di pace e sicurezza del nostro tempo”.

Mentre aspettiamo di capire “Quand’è che il troppo è troppo?” – per citare l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri, Josep Borrell – , su Gaza scorre una cascata di atrocità, comunque s’intenda legalmente classificare questo conflitto.

Crimini di guerra e contro l’umanità si accumulano. E sono persino annunciati per quando le ostilità saranno chiuse, come sarebbe il caso in cui dovessero trovare concretezza le volontà di reinsediamento della Striscia ed espulsione dei palestinesi – fin qui, va detto, ufficialmente respinte, seppur non sanzionate, dal premier israeliano – portate avanti anche da elementi di peso del governo: il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e quello delle Finanze Bezalel Smotrich in testa.

L’intero sistema dei diritti umani è sfregiato a Gaza, il diritto internazionale umanitario è spudoratamente calpestato. E riconoscere questo nulla ha a che vedere con il discutere il diritto all’autodifesa di Israele né quello all’autodeterminazione del popolo palestinese. Non sono giustificabili le azioni di Hamas (sono ancora circa un centinaio gli israeliani tenuti in ostaggio di cui deve pretendersi la liberazione). Non lo è altrettanto la punizione collettiva che Israele sta infliggendo al popolo di Palestina.

Su quanto si consuma a Gaza (e in Cisgiordania) indaga, tra non poche difficoltà, la Corte Penale Internazionale a cui sette Paesi oltre alla Palestina – Messico e Cile, lo scorso 18 gennaio, in ultimo – hanno deferito la situazione perché siano definite le responsabilità per le numerose gravi violazioni contro i civili, “da qualunque parte provengano”.

Il disastro a Gaza è tale che persino la Corte Internazionale di Giustizia, con una decisione storica (soltanto tre casi sono stati legalmente riconosciuti come “genocidio” dal 1951), ha ritenuto “plausibile” che sussista il rischio di genocidio contro il popolo palestinese e perciò ha intimato a Israele di intraprendere azioni immediate per prevenirlo, pur senza ordinare espressamente un cessate il fuoco.

 

Leggi anche: Il Sudafrica, Israele e l’accusa di genocidio

 

Che Israele avrebbe ignorato la pronuncia vincolante della Corte – da allora “le forze armate israeliane hanno continuato a uccidere e prendere di mira civili su vasta scala, senza necessità militare o proporzionalità [..] Israele ha anche intensificato i suoi sforzi per farli morire di fame e per sfollarli con la forza dalle loro case nella Striscia”, denuncia, uno tra tanti, il gruppo Euro-Med Human Rights Monitor – era prevedibile.

Non significa che sia tollerabile. Come non può esserlo che lo Stato d’Israele continui a resistere alle richieste di discutere dell’unica soluzione possibile, vale a dire riconoscere il diritto all’esistenza di uno Stato di Palestina indipendente e sovrano.