Decidere a maggioranza nella UE: una questione di coraggio e immaginazione
Molti convengono che, arrivata a 27 membri e con la prospettiva di assorbirne altri ancora in un futuro non vicino ma nemmeno molto lontano, l’UE ha bisogno di un deciso rafforzamento del suo modo di funzionare e quindi delle sue istituzioni. I temi da affrontare sono molti. Bisogna tuttavia accettare che per il momento non esistono le condizioni per una revisione radicale del trattato (Lisbona, in vigore dal 2009). Può non piacere, ma le istituzioni dell’UE continueranno a evolvere come risposta funzionale alle sfide che si pongono di volta in volta e non in base a un preordinato disegno complessivo.
Non è quindi un caso se la discussione si concentra soprattutto su un punto: l’estensione della possibilità di votare a maggioranza. Gli avvenimenti rendono attuale questa misura, secondo alcuni urgente, soprattutto in due settori: la fiscalità e la politica estera e di sicurezza. La prima, a causa della necessità di meglio governare un insieme economico sempre più integrato e di evitare vere o presunte distorsioni di concorrenza, la seconda perché i cambiamenti intervenuti in un mondo sempre più conflittuale non permettono più all’Europa di trascurare gli imperativi geopolitici, né di affidarsi interamente come nel passato alla protezione americana. E’ il dibattito sulla “autonomia strategica”, lanciato da Emmanuel Macron; dibattito che diventerebbe sterile se l’UE non fosse in grado di reagire rapidamente alle sfide.
Sovranità e sistema UE
Il funzionamento dell’UE incide in due modi sulla sovranità dei Paesi membri. Il primo è che le decisioni comuni, quale che sia la procedura di decisione, sono giuridicamente vincolanti. Il secondo è specifico alle decisioni adottate a maggioranza. Chi ha votato a favore può legittimamente pensare che la sua sovranità è stata così rafforzata. Chi invece ha votato contro, vede la propria sovranità simbolicamente e concretamente limitata. Non deve quindi sorprendere che la questione del voto a maggioranza sia sempre stata la questione più sensibile del dibattito istituzionale in Europa; basti il ricordo della “crisi della sedia vuota” provocata da Charles de Gaulle nel 1965. Da un lato, chi invoca la possibilità di votare a maggioranza, lo fa perché una UE prigioniera dell’unanimità rischia di fare la fine della Polonia la cui Dieta era paralizzata dal “liberum veto” di uno qualsiasi dei suoi componenti. Chi invece è contrario, ne fa un’irrinunciabile questione di sovranità. Posta in questi termini, la questione rischia però di diventare insolubile perché contiene in sé il dilemma fra un ordinamento federale e uno confederale o intergovernativo. Una scelta che l’UE e i suoi stati membri non sono pronti a fare.
In realtà le cose non stanno proprio così; o piuttosto, la realtà è più complessa di quanto si crede. Le materie sulle quali si può votare a maggioranza in base al trattato attuale, sono già oggi molto numerose. Esse coprono in particolare, tranne la fiscalità, tutto ciò che determina il funzionamento del mercato unico, nonché l’approvazione del bilancio comune e altri settori ancora. Per capire in che modo questa possibilità potrebbe essere estesa a nuovi casi, bisogna prima soffermarsi sulla logica del sistema esistente e sul suo funzionamento. Per prima cosa, la scelta delle materie suscettibili di essere decise a maggioranza non risponde a un preciso disegno costituzionale; è invece la conseguenza del fatto che l’UE è un’organizzazione in cui la condivisione di sovranità avviene su delega degli Stati membri. In pratica si può votare in un dato settore, non perché sia auspicabile in astratto, ma perché ci siamo messi d’accordo prima sulle grandi linee degli obiettivi che vogliamo perseguire tutti insieme. La possibilità di votare a maggioranza non riguarda quindi gli obiettivi, ma le modalità per realizzarli. Se questa condivisione degli obiettivi è assente, i Paesi membri saranno molto riluttanti a condividere la sovranità.
La logica di questo sistema, è quindi molto diversa di quella che governa sia le nostre democrazie nazionali sia gli Stati federali; essa determina anche il modo in cui il voto a maggioranza funziona concretamente. Nella UE in pratica si vota molto poco anche nei casi in cui ne esiste la possibilità. Tutto il sistema è infatti organizzato per ricercare il massimo di consenso. Ma allora, si dirà, la cosa è veramente così importante? La risposta è sì e non è necessario essere esperti nella teoria dei giochi per capire perché.
Il senso profondo del voto a maggioranza
L’esistenza della possibilità di votare modifica profondamente la strategia negoziale dei partecipanti. Se è richiesta l’unanimità, ognuno avrà interesse a mantenere le proprie posizioni fino alla fine. Accederà al compromesso solo chi è convinto che l’assenza di decisione sia per lui peggiore delle concessioni che è chiamato a fare. Il risultato è quindi in molti casi la paralisi. Se invece esiste la possibilità di votare a maggioranza, ogni partecipante avrà interesse a partecipare fin dall’inizio alla formazione di una maggioranza potenziale. I recalcitranti che resteranno con il cerino in mano, saranno a quel punto obbligati a trovarsi in minoranza, allinearsi o comunque ottenere risultati inferiori alle aspettative. In sostanza il voto (o piuttosto la possibilità di votare) non serve a definire maggioranze e minoranze stabili; si può addirittura dire che ciò sarebbe il segno di una grave frattura che produrrebbe nei Paesi strutturalmente “minoritari” la percezione che il sistema funziona a loro detrimento.
Il voto a maggioranza serve invece essenzialmente a superare il veto di uno o più paesi. Del resto, il fatto che secondo il trattato la maggioranza per essere tale richieda di esprimere sia il numero dei Paesi membri sia la loro popolazione, rende la sua formazione piuttosto complessa, riduce il rischio di prevaricazione e anche di una spaccatura fra maggioranze e minoranze stabili. Queste caratteristiche del funzionamento del sistema sono peraltro una delle ragioni dell’importanza del rapporto franco-tedesco: i due paesi vengono spesso da posizioni così lontane, che quando convergono il loro accordo può fornire le basi di una potenziale maggioranza.
Se questa è la logica del sistema, essa è però lungi dall’aver risolto tutti i problemi. In ultima analisi, l’accettazione del voto a maggioranza deve rispecchiare un grado elevato di fiducia reciproca. Resta il timore di un qualsiasi Stato membro, o di ritrovarsi sistematicamente in minoranza, oppure che suoi interessi “vitali” siano calpestati dalla maggioranza. Oltre a ragioni di opposizione ideologica al carattere sovranazionale della costruzione europea, fu questa la motivazione di De Gaulle nella crisi del 1965. Come in quel caso per la Francia, la convinzione di un qualsiasi Paese di trovarsi in una situazione eccezionale per cui i propri interessi rischiano di non essere capiti o condivisi dalla maggioranza, è molto spesso ingiustificata; siamo più simili di quanto crediamo. Tuttavia il timore esiste, come tutte le questioni identitarie è spesso sentita dall’elettorato e bisogna quindi tenerne conto.
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Ci sono stati vari tentativi di codificare “l’interesse vitale” e quindi una forma di diritto di veto, ma nessuno ha prodotto risultati convincenti. Un primo esempio fu il cosiddetto “compromesso di Lussemburgo” che concluse la crisi del 1965. Esso riconobbe il diritto di un Paese a invocare l’interesse vitale contro un possibile voto a maggioranza; non specificava tuttavia né cosa si deve intendere per “vitale”, né quale ne sarebbe stata la conseguenza. Il risultato fu che per molti anni si rinunciò completamente a votare, con gravi danni per tutti. La questione centrale che il testo del “compromesso” non chiariva era se la natura “vitale” dell’interesse invocato, fosse o meno esclusiva prerogativa del Paese interessato. La questione fu in parte chiarita nel 1983, paradossalmente su iniziativa francese, su una questione di prezzi agricoli che erano stati presi in ostaggio dalla Gran Bretagna nel negoziato sul suo contributo al bilancio. Il veto britannico fu superato con l’argomento che l’interesse vitale non poteva essere invocato per ragioni estranee a quelle della questione sottoposta alla decisione. Si era così stabilito il principio del diritto degli altri Stati membri di sindacare la decisione di uno di essi di invocare l’interesse vitale.
Quando poi, nel 1986, fu adottato l’Atto Unico che allargava la possibilità di votare alle decisioni necessarie per completare il mercato unico, tutti erano coscienti di quanto ciò fosse essenziale per raggiungere l’obiettivo e cadde almeno in quel campo ogni residuo ostacolo ideologico. La cosa si risolse con un altro paradosso. L’Atto Unico entrò in vigore sotto presidenza danese, uno dei Paesi più restii al principio del voto maggioritario. La prima misura sottoposta al voto fu un gruppo di direttive necessarie a completare il mercato unico dell’automobile, fino allora bloccate proprio da un veto danese. A prova di quanto però il tema fosse sensibile, si definirono procedure destinate a fare in modo che nessun Paese si trovasse di fronte al pericolo di essere messo in minoranza senza adeguato preavviso, ma anche a conferma che il principio guida dei lavori debba restare la ricerca del consenso.
Maggioranze, minoranze e veti: una via pragmatica
Molti pensano che il “compromesso di Lussemburgo” sia stato definitivamente sepolto. Non è proprio così. Esso invece sopravvive con la possibilità di ogni Stato membro di chiedere che una determinata decisione sia portata di fronte al Consiglio Europeo, istituzione che normalmente decide per consenso. Alcuni vorrebbero codificare la pratica. Sarebbe probabilmente un errore. È infatti utile lasciare una valvola di sfogo al timore di essere posti in minoranza in casi che si considerano, a torto o a ragione, vitali; ciò è tanto più importante se vogliamo affrontare tematiche al cuore della sovranità nazionale, come la politica estera o la fiscalità. Poiché codificare tutto ciò è probabilmente impossibile, una certa dose di ambiguità può essere necessaria. È però anche necessario che si limitino gli abusi e che la pratica diventi abituale, come successe nel caso del “compromesso di Lussemburgo”.
Il trattato è del resto esplicito nello stabilire che il Consiglio Europeo è una istituzione con compiti di indirizzo politico e non deve arrogarsi funzioni legislative. In caso di abusi ripetuti, non ci troveremmo di fronte a una questione giuridica o istituzionale, ma a una vera e propria crisi della fiducia reciproca.
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Che conclusioni trarre ora per l’eventuale estensione del voto a nuove materie? Il cuore dell’analisi che precede è che la funzione del voto non è quella di consolidare maggioranze, ma di superare i veti di uno o di un numero limitato di Paesi. Una prima conseguenza è che ogni proposta di estendere la possibilità di votare a maggioranza su questioni come la fiscalità e la politica estera e di sicurezza deve essere chiaramente definita e focalizzata su aspetti che raccolgono già, se non la totalità almeno una grande maggioranza di consensi. Per la fiscalità, ciò che è strettamente necessario al funzionamento del mercato unico. La questione della politica estera è più complessa.
Un primo caso che viene in mente, citato esplicitamente dal cancelliere Olaf Scholz nel suo discorso di Praga, è quello delle sanzioni. Esso poggia sul fatto che l’UE ha quasi raggiunto un’unità di consensi sulla guerra in Ucraina e si potrebbe quindi pensare che la sua gestione potrebbe essere sottratta all’unanimità. Ne siamo invece lontani per quanto riguarda i rapporti con la Cina e la politica verso l’Africa. Si potrebbe pensare che dovrebbe essere possibile votare su dichiarazioni politiche anche se non giuridicamente vincolanti, riguardanti materie per le quali è già stata definita una strategia comune. Resta però il fatto che la politica estera e di sicurezza sono materie per cui è obiettivamente difficile estendere la possibilità di votare a maggioranza senza mettere in discussione il principio, attualmente consacrato dal trattato, della competenza nazionale.
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Esistono percorsi meno radicali per progredire? C’è nel trattato la possibilità di aprire la strada al voto a maggioranza attraverso le cosiddette “passerelle”, che richiedono una decisione unanime, ma senza la complessa procedura di revisione del trattato. Non vi sono stati finora casi di ricorso a questa strada e sono legittimi i dubbi, per alcuni Paesi anche costituzionali, sulla sua effettiva praticabilità. Un’altra strada è quella della differenziazione, cioè la possibilità per alcuni Paesi di progredire, in attesa che altri seguano. La condizione essendo sempre di lasciare la porta aperta e non discriminare gli esclusi. In teoria sembra semplice. In pratica lo è meno.
Una delle più difficili sfide che l’UE dovrà affrontare nei prossimi anni è quella di mantenere un dinamismo che a 27 si rivela sempre più difficile, garantendo però il valore dell’unità politica dell’insieme. Essa è rivelata fondamentale nella gestione di Brexit. Lo sarà ancora di più nella gestione della grande sfida posta dall’integrazione e stabilità di tutta la parte orientale dell’Europa, all’interno come all’esterno dei confini dell’UE. Dare spazio alle avanguardie sarà quindi importante, ma da usare con cautela. Il trattato offre possibilità concrete con il ricorso alle cosiddette “cooperazioni rafforzate”, che sono però sottoposte a limiti e procedure a volte stringenti.
Se tuttavia l’obiettivo principale è quello di superare eventuali veti, c’è anche la possibilità di procedere con un vero e proprio trattato o anche un semplice accordo intergovernativo concluso fra chi ci sta, isolando il (o i) recalcitranti. La soluzione fu usata per superare il maldestro tentativo di veto di David Cameron alla creazione del MES (Meccanismo Europeo di Solidarietà); esso fu istituito sulla base di un trattato parallelo ma collegato a quello dell’UE, senza la partecipazione della Gran Bretagna. Perché non ricorrere a soluzioni di questo tipo nel caso l’Ungheria continuasse con il suo ostruzionismo sulle questioni che riguardano la guerra in Ucraina e i rapporti con la Russia? È una strada difficile, tenendo conto degli obblighi di non discriminazione. Tuttavia avrebbe un indubbio effetto di pressione politica; si tratterebbe in sostanza di far giocare i rapporti di forza. Certo, darebbe all’esterno l’immagine di un’Europa divisa. Tuttavia in alcuni casi, soprattutto se la decisione raccogliesse una larga maggioranza compresi tutti i Paesi maggiori, l’immagine di un’Europa divisa potrebbe essere preferibile a quella di un’Europa paralizzata.
Ogni iniziativa da parte dei maggiori Paesi con la finalità di aumentare la pressione sugli altri può essere utile e merita di essere esplorata. Ci sarebbero tuttavia dei limiti da non superare. Isolare un Paese costringendolo a fare i conti con le ragioni della sua appartenenza all’UE, può essere auspicabile; creare una frattura con un gruppo di Paesi, sarebbe invece molto dannoso. È comunque un fatto che l’estensione della possibilità di votare avverrà solo sotto la pressione degli avvenimenti. Ci vorrà quindi coraggio e immaginazione.
Simili sviluppi sono utili anche per un’altra ragione. Sia pure a medio termine, siamo ormai inseriti in una prospettiva che ci porta verso un nuovo allargamento e una UE di più di 30 membri. A quel punto, come sottolineato da Scholz nel suo discorso di Praga, una riforma istituzionale diventerà indifferibile. Il sistema di voto ne costituirà inevitabilmente uno dei punti principali. È quindi importante che si inseriscano fin d’ora nella vita della UE pratiche che convincono tutti dell’impossibilità di continuare nell’abuso del diritto di veto.