international analysis and commentary

Cina, tra dividendo demografico e trappola del reddito medio

Questo articolo è pubblicato sul numero 2/2023 di Aspenia

1,231

Il miracolo economico cinese è, in parte, un miracolo demografico. A poco sarebbero servite le riforme pro-mercato iniziate da Deng Xiaoping nel 1979 se la Cina non avesse attraversato contemporaneamente una transizione demografica senza precedenti. Tra il 1970 e il 1980, il tasso di fertilità cinese crollò da circa sei bambini per donna a poco più di due, grazie a misure sempre più stringenti sul controllo della natalità, poi sfociate nell’infausta one child policy che ha spinto la fertilità sotto il tasso naturale di sostituzione della popolazione. A ciò si è aggiunto un forte incremento nelle aspettative di vita che sono quasi raddoppiate tra il 1950 e il 2000, portando un uomo cinese a vivere oltre 70 anni, in media.

La combinazione di bassa fertilità ed elevata longevità ha gettato le basi per il cosiddetto dividendo demografico. Grazie a minori incombenze famigliari, le donne hanno potuto unirsi a una forza lavoro in continua espansione, per effetto della maggiore durata di vita. A fine anni Settanta, la forza lavoro cinese era composta da circa 400 milioni di persone. Dopo quattro decenni, mentre il resto del mondo fronteggiava crescenti problemi di stagnazione demografica, questo numero è più che raddoppiato, saltando a circa 800 milioni. Secondo alcuni studi, dall’ascesa al potere di Deng fino ai giorni nostri, il dividendo demografico ha contribuito a circa il 20% della crescita economica cinese, alimentando il settore manifatturiero ad alta intensità di lavoro e votato alle esportazioni.

Una famiglia cinese della classe media con un solo figlio

 

I RISCHI DI UNA TASSA DEMOGRAFICA. Oggi, però, quel dividendo demografico si sta trasformando sempre più rapidamente in una tassa. Nel lungo periodo, la bassa natalità ha portato una graduale contrazione della forza lavoro, dato che sempre meno persone ne entrano a far parte. Nel 2015, la forza lavoro cinese ha raggiunto il picco di 801 milioni e da allora ha cominciato ad assottigliarsi di qualche migliaio di persone ogni anno. Inoltre, l’anno scorso, la popolazione cinese nel suo complesso ha registrato la sua prima piccola contrazione dalla grande carestia del 1961, cedendo all’India il primato di paese più popoloso al mondo con 1,4 miliardi di persone. Allo stesso tempo, la maggiore longevità ha portato una quota sempre più ampia di anziani a gravare su una quota sempre più ridotta di lavoratori. Si stima che entro il 2050, l’old age dependency ratio, ossia il numero di persone di età superiore ai 65 anni sul totale della popolazione in età lavorativa, toccherà oltre il 50% — ossia ci sarà un anziano ogni due componenti della forza lavoro.

 

Leggi anche:
La modernizzazione della Cina e i suoi limiti: quel treno chiamato demografia
La Cina che invecchia

 

Il governo cinese sta correndo ai ripari. Nel 2022, dopo alcuni rilassamenti negli anni precedenti, la one child policy è stata definitivamente abbandonata, per essere sostituita dalla three child policy. Tuttavia, per loro natura, i cambiamenti della piramide demografica avvengono gradualmente. Come successo per il dividendo demografico, che ha dispiegato i propri benefici su quattro decenni, così gli effetti positivi di un nuovo baby boom, sempre che ci sia, si vedranno non prima del 2050. Nel frattempo, la Cina si troverà a dover affrontare una sfida demografica dalle ripercussioni economiche senza pari.

 

LA SVOLTA DI LEWIS. Per comprendere le implicazioni economiche delle dinamiche demografiche cinesi, passate e future, è utile ricorrere al lavoro dell’economista Arthur Lewis. In una serie di importanti contributi degli anni Cinquanta, che gli valsero il premio Nobel, Lewis descrisse le condizioni necessarie per industrializzare un’economia prevalentemente agricola. Nelle sue semplificazioni matematiche, Lewis immaginava che l’economia di un paese non sviluppato fosse composta da due settori, quello agricolo e quello manifatturiero. Nelle prime fasi di sviluppo, la forza lavoro tende a concentrarsi in agricoltura fino a quando la sua graduale meccanizzazione rende sempre più ridondante il lavoro dei contadini, a fronte di un ammontare di terra da coltivare che rimane costante. Se un agricoltore e un trattore svolgono il lavoro di dieci contadini, ci saranno nove contadini a produttività quasi nulla che potranno contare su redditi di mera sussistenza.

Quei nove contadini potranno però cercare salari più allettanti in un settore manifatturiero ancora embrionale che, grazie solitamente a investimenti pubblici o esteri, vanterà forti potenzialità di crescita. Nel corso del tempo, il processo di industrializzazione permetterà di assorbire gradualmente il surplus di manodopera agricola – quei nove contadini, per intenderci. Il continuo flusso di migranti dalle campagne alle fabbriche contribuirà a mantenere i salari a livelli competitivi, nonostante la forte domanda di lavoro. Costi del lavoro contenuti permetteranno alle imprese di registrare profitti che, se reinvestiti per costruire nuovi capannoni e comprare nuovi macchinari, porteranno alla continua espansione del settore manifatturiero. In campagna, invece, accadrà l’opposto. La domanda stagnante di lavoro, combinata a un’offerta in continua diminuzione per via dell’emigrazione, spingerà i salari verso l’alto, aumentando il potere d’acquisto delle fasce della popolazione più povere. Questo circolo virtuoso tra flussi migratori e accumulazione di capitale porterà alla piena industrializzazione del paese.

Dinamiche di questo tipo hanno garantito competitività alla Cina per oltre due decenni, trasformandola nella fabbrica del mondo e contribuendo a contenere le pressioni inflazionistiche globali. Secondo stime del Fondo monetario internazionale, grazie alla combinazione di progresso tecnologico in agricoltura e aumento della longevità, il surplus di forza lavoro agricolo è aumentato da circa 50 milioni nel 1993 a 160 milioni nel 2008, per poi gradualmente esaurirsi. Nel modello di Lewis, infatti, c’è un punto di svolta, quando le condizioni di crescita favorevoli si ribaltano. Una volta esaurito il surplus di forza lavoro agricola, le aziende manifatturiere saranno costrette a offrire salari più elevati, vedendosi erodere profitti, investimenti e competitività. Nel gergo tecnico degli economisti, si tratta del cosiddetto Lewis turning point. Secondo molti studi, la Cina ha ormai superato questa soglia.

Con un settore industriale ormai maturo e un surplus di forza lavoro ormai esaurito, il PIL cinese non cresce più, da tempo, a tassi a doppia cifra. Per quest’anno, il Partito comunista cinese ha fissato un obbiettivo di crescita di “circa il 5%”. Ma la conseguenza più preoccupante del Lewis turning point è che tende a coincidere con la trappola del reddito medio. L’intuizione del modello di Lewis è che l’espansione del settore manifatturiero, oltre ad assorbire manodopera in eccesso, porta a un aumento generalizzato del reddito per tutta la popolazione. La sfida, per tutti i paesi in via di sviluppo, è quella di esaurire la spinta propulsiva demografica a un livello di reddito alto, in modo tale da entrare a far parte del club delle economie avanzate.

La Cina non è riuscita a fare questo salto di reddito in tempo. Nonostante il PIL cinese abbia da poco superato quello americano – almeno quando misurato in termini di parità di potere d’acquisto e non di tassi di cambio di mercato – il reddito pro capite cinese si aggira intorno ai 13,000 dollari. Gli Stati Uniti, il cui reddito pro capite oggi ammonta a circa 70,000 dollari, si trovavano nell’attuale situazione cinese negli anni Cinquanta, con tutti i debiti aggiustamenti per l’inflazione. Il timore dell’élite cinese che il paese invecchi prima di diventare ricco si sta così materializzando.

 

LA TRAPPOLA DEL REDDITO MEDIO. Varcare la soglia del Lewis turning point ha implicazioni importanti non solo per la Cina, ma per l’economia globale nel suo complesso. Un processo virtuoso di transizione economica richiede, infatti, il passaggio da un modello di crescita estensivo, nel quale la continua espansione del fattore lavoro e del capitale ne determinano il successo, a un modello di crescita intensivo, incentrato sulla costante crescita della produttività attraverso il progresso tecnologico e una maggiore qualità del capitale fisico. Se il numero di lavoratori si riduce, bisognerà puntare su macchinari sempre più sofisticati e capaci di sostituire lavoro manuale. Solo in questo modo si potranno garantire tassi di crescita sufficienti per uscire dalla trappola del reddito medio.

L’altra grande implicazione del modello di Lewis è che la Cina dovrà evolvere da fabbrica del mondo a mercato del mondo. La grande offerta di lavoro dei decenni passati ha permesso una compressione dei salari dei lavoratori cinesi. Il basso costo del lavoro, accompagnato a politiche valutarie volte a contenere il tasso di cambio, ha permesso alla Cina di assorbire domanda estera di beni, conquistando quote di mercato globale grazie alla forte competitività di prezzo. Con l’esaurirsi del surplus di lavoro, e a maggior ragione a fronte di una popolazione in declino, i salari tenderanno ad aumentare, in quanto le imprese lotteranno per accaparrarsi operai e impiegati da un bacino in esaurimento. Secondo l’Organizzazione internazionale del Lavoro, dal 2008 al 2018 i salari reali (aggiustati per l’inflazione) in Cina sono più che raddoppiati, mentre nelle economie avanzate stagnavano o, come successo nel sud Europa, addirittura si contraevano.

Salari più alti implicano minore competitività sui mercati esteri e la necessità di sviluppare un mercato interno per assorbire quella quota di produzione che non uscirà più dai confini nazionali perché non più competitiva. Inoltre, a fronte della maturazione del settore manifatturiero, sarà necessario sempre meno risparmio per finanziare investimenti in capitale fisico e servirà sempre più spesa privata per assorbire la produzione in eccesso. Si dovrà, in sostanza, passare da un modello di crescita incentrato su investimenti ed esportazioni a uno focalizzato sui consumi privati, soprattutto nel settore dei servizi. E la strada sarà lunga e tortuosa. Oggi i consumi privati rappresentano a stento il 40% del PIL cinese, contro una media di circa il 60% nelle economie avanzate, mentre il tasso di risparmio privato si attesta intorno al 35% del reddito – circa tre volte superiore a quello americano. Il cambio di mentalità richiesto alle famiglie cinesi è enorme.

 

STIMOLARE LA DOMANDA DOMESTICA. Per quanto complessa da mettere in moto, l’élite cinese sta cercando di attivare questa trasformazione. La dual circulation strategy, annunciata da Xi Jinping nel 2020, mira esattamene a stimolare la domanda domestica, riducendo la dipendenza da quella estera. Questa strategia risulta essere quanto mai urgente a fronte di un processo di frammentazione geopolitica che sta portando all’emergere di sfere economiche regionali sempre più marcate. L’elemento chiave di questa strategia è puntare sull’innovazione tecnologica domestica, attraverso la creazione di un ecosistema che connetta università, governo e settore privato. Solo con maggiori consumi domestici, si ridurrà la volatilità dovuta a cicli economici guidati da investimenti nel settore immobiliare. Mentre politiche di self-reliance tecnologica ridurranno la vulnerabilità alle tensioni geopolitiche.

L’altra leva per riequilibrare l’economia cinese è la common prosperity strategy. La compressione dei salari legata al modello di Lewis ha portato a enormi disuguaglianze di reddito, persino rispetto agli Stati Uniti. Gli imprenditori cinesi, evidentemente, non reinvestivano tutti i loro profitti per accumulare nuovo capitale, dando vita a grandi disparità economiche rispetto ai loro lavoratori. Dal 2020, Pechino ha adottato politiche estreme e inaspettate per cercare di riportare il capitale sotto controllo e redistribuire la ricchezza in modo più equo. A ciò si aggiungono le politiche anticorruzione che hanno caratterizzato l’era di Xi dal suo inizio.

Per il mondo nel suo complesso, le implicazioni di questi cambiamenti strutturali non saranno meno importanti. Se produrre in Cina sarà meno vantaggioso che in passato, le aziende americane o europee avranno un incentivo al reshoring. Per un’economia come gli Stati Uniti, un minor deficit commerciale con la Cina richiederà un ribilanciamento macroeconomico interno, attraverso un aumento del risparmio domestico – e quindi una riduzione dei consumi (privati o pubblici). Le banche centrali delle economie avanzate, dal canto loro, si troveranno ad affrontare pressioni inflazionistiche più intense rispetto al passato che potrebbero costringerle ad adottare politiche monetarie sempre più restrittive. E le economie in via di sviluppo, soprattutto in Africa, avranno l’opportunità di cercare di rimpiazzare la Cina come fabbriche del mondo, sempre che progressi sul fronte della robotica non rendano sempre più conveniente la produzione domestica in Europa e Nord America.

 

FALLIRE LA TRANSIZIONE. Le alternative per Pechino non sono allettanti. Ignorare il Lewis turning point implicherebbe condannare il paese all’instabilità politica e alla precarietà economica. Per poter preservare la competitività sui mercati internazionali, la Cina dovrebbe mettere un tetto ai salari in crescita, sussidiare le imprese e manipolare la valuta. Ma i lavoratori mal digerirebbero tagli ai salari, mettendo in discussione la leadership del Partito, mentre i sussidi destabilizzerebbero finanze pubbliche già precarie e una svalutazione dello yuan porterebbe inflazione. Queste manovre di politica economica, poi, generebbero tensioni politiche con il resto del mondo, alimentando la frammentazione geopolitica e innescando misure protezionistiche che limiterebbero la capacità cinese di esportare.

Inoltre, intestardirsi su un modello di crescita obsoleto non permetterebbe di assorbire la futura classe media cinese che aspirerà sempre più ad assicurarsi lavori mediamente qualificati. L’eventuale boom demografico legato alla three child policy, che si potrà materializzare nei prossimi trent’anni, difficilmente creerà un surplus di lavoro poco qualificato come negli anni Novanta. A tal fine, è necessario un upgrade del sistema economico cinese nel suo complesso.

Infine, manipolare i salari al ribasso rischierebbe di esacerbare gli squilibri regionali attuali. Le regioni costiere cinesi sono altamente sviluppate ma estremamente congestionate, mentre le aree interne sono molto arretrate e poco popolate. Solo l’offerta di salari adeguati permetterà alle regioni meno avanzate di attrarre sufficiente manodopera per riequilibrare il modello di crescita.

Il successo dell’economia cinese degli ultimi quarant’anni è in gran parte frutto di un’efficace gestione della transizione demografica. La definitiva consacrazione economica della Cina dipenderà dalla sua abilità di adattarsi alla nuova realtà della popolazione.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 2/2023 di Aspenia