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Un passaggio difficile per Obama: tra Boston, il Texas e il gun control

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Era da tempo che Barack Obama non viveva un periodo così difficile da presidente. Anche la rielezione del novembre scorso sembra uno sforzo relativo se paragonato al groviglio di complicazioni che lo ha avviluppato nelle ultime settimane. Il fatale riemergere del terrorismo sul suolo americano s’accompagna allo stallo cronico di un Congresso che blocca le leggi sulle quali Obama ha investito più tempo ed energie. E intanto l’esplosione di una fabbrica di fertilizzanti nella cittadina di West, in Texas, ha ucciso quattordici persone e ne ha ferite oltre 160. Sullo sfondo del lutto a Boston e a West, l’economia americana continua a crescere a un ritmo troppo lento rispetto agli obiettivi della Casa Bianca, e il meccanismo di tagli automatici alla spesa pubblica noto come sequester non giova alla ripresa.

Per la verità, ben pochi degli eventi che affliggono il presente Obama di questi tempi possono essere direttamente attribuiti a sue manchevolezze o errori, ma nel mezzo della tempesta tutte le colpe tendono a ricadere sul timoniere.

Nella strage del 15 aprile alla maratona di Boston molti aspetti rimangono ancora da chiarire: un movente preciso, gli eventuali legami dei fratelli Tamerlan e Dzokhar Tsarnaev con gli ambienti del terrorismo internazionale, il modo in cui l’FBI ha gestito le indagini sul maggiore dei due (Tamerlan) che era già stato sottoposto alle attenzioni degli agenti federali per frequentazioni sospette in rete e non solo. Il senatore repubblicano Lindsey Graham, ad esempio, sostiene che Tamerlan è rientrato per sei mesi in Russia fra il 2011 e il 2012 nonostante il suo nome comparisse nelle liste dell’FBI. Forse è stato addirittura un errore di battitura del nome a permettere al giovane di passare la frontiera senza che Washington si accorgesse di nulla. Se le indagini proveranno che effettivamente uno dei due responsabili del primo attentato terroristico portato a compimento sul suolo americano dopo l’11 settembre 2001 ha potuto cospirare liberamente per una falla nell’apparato di sicurezza americano, per Obama sarà un brutto colpo. E anche un paradosso: il presidente in questi anni è stato spesso accusato di avere abusato dei bombardamenti con i droni e di essersi mosso con troppa disinvoltura nella cornice legale antiterrorismo costruita da George W. Bush. Ora, la situazione è che sotto la guida di un commander-in-chief aggressivo quando si tratta di incursioni mirate e bombardamenti chirurgici all’estero, gli Stati Uniti hanno ucciso Osama Bin Laden, ma non hanno fermato l’iniziativa di due terroristi dilettanti di origine cecena.

Nonostante le pressioni dei falchi al Congresso (capeggiati proprio da Graham), che hanno insistito per trattare il sopravvissuto Dzhokhar come un nemico di guerra, la Casa Bianca ha invece deciso di processarlo in una corte civile, scelta che all’apparenza può sembrare in controtendenza rispetto alle naturali richieste di giustizia dell’opinione pubblica dopo un attentato terroristico. Ma in questo momento di difficoltà Obama è iper-sensibile alle indicazioni che vengono dai sondaggi: secondo il Washington Post la preoccupazione che domina la maggioranza degli americani nel dopo-Boston è che il governo violi i diritti costituzionali di cittadini americani in nome della sicurezza nazionale. Obama così evita complicazioni giuridiche e asseconda il sentire dominante.

Sul fronte interno il momento difficile per Obama deriva soprattutto dalla bocciatura al Senato della proposta di legge sul controllo delle armi da fuoco. Dopo la strage di Newtown nel dicembre scorso, il presidente ha ingaggiato una battaglia a viso aperto contro la National Rifle Association, la potente lobby delle armi che esercita una pressione costante sul Congresso per evitare qualunque disposizione che possa ostacolare l’accesso degli americani a pistole e fucili. Voleva il bando delle armi d’assalto, voleva caricatori meno capienti, controlli più serrati per gli acquirenti; tutti desideri che nel corso del dibattito sono stati stralciati in favore di un programma assai meno ambizioso. Neanche quello ha passato la prova del Senato.

Non solo. Con la sua campagna martellante Obama non è riuscito nemmeno a convincere tutti i Democratici a votare compatti. Peraltro, se anche i quattro franchi tiratori progressisti si fossero allineati al presidente, i Democratici non avrebbero comunque raggiunto i sessanta voti necessari per approvare l’emendamento, ma almeno Obama avrebbe potuto esibire un minimo di capacità di coesione politica a proposito di una questione che divide trasversalmente l’America. A questo punto, l’Obama empatico che riesce a convincere il Congresso a votare riforme dal sapore storico sembra un lontano ricordo.

Alla riforma sull’immigrazione sono ora appese le speranze obamiane di uscire da un periodo oscuro che non promette nulla di buono nell’ottica della costruzione della legacy, il suo posto nella storia. Anche in questo caso non sarà facile. L’attentato di Boston, commesso da due immigrati regolari (uno di essi, Tamerlan, un cittadino naturalizzato), ha gettato un’ombra di sospetto sul rapporto fra immigrazione e terrorismo, mentre gli economisti valutano l’impatto che potrebbe avere sui conti pubblici l’ingresso di 11 milioni di immigrati clandestini nel sistema di welfare. L’accordo bipartisan trovato dalla gang of eight (otto membri Congresso dei due partiti) è minacciato da destra, dove un manipolo di parlamentari guidati dal senatore Ted Cruz si oppone a quella che è considerata un’amnistia di fatto.

Come se non bastasse, il 25 aprile il presidente partecipa all’inaugurazione del centro studi di George W. Bush, sul quale diversi commentatori stanno maturando un giudizio più clemente rispetto all’animosa condanna collettiva pronunciata durante la sua presidenza. Obama non potrebbe arrivare all’appuntamento con la storia in un momento più delicato.