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I meriti del libero commercio tra UE-USA: il momento giusto per un nuovo patto

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Durante il discorso di inaugurazione della sua presidenza lo scorso gennaio, Obama ha stupito menzionando, tra le iniziative di politica estera, la volontà di concludere un accordo di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione Europea. La proposta è stata subito accolta dalle autorità di Bruxelles, con immediate reazioni positive del presidente della Commissione José Manuel Barroso e il Commissario per il commercio Karel De Gucht. L’obiettivo dichiarato è concludere i negoziati entro due anni, e vi sono valide ragioni per puntare a tempi così celeri. Nonostante il fallimento di simili tentativi effettuati in passato, l’accordo è una buona idea e le circostanze potrebbero essere oggi più propizie.

Il legame commerciale tra UE e USA è ancora oggi il più importante al mondo in valore (circa 30% degli scambi mondiali di prodotti manifatturieri). L’Unione Europea a 27 stati invia negli Stati Uniti il 17% delle sue esportazioni totali di beni industriali, e ne riceve l’11% delle importazioni (dati: Eurostat e OCSE). Queste percentuali raggiungono il 18% e 17% per gli Stati Uniti rispetto all’Europa. Entrambi i partner esportano ad oggi ancora il doppio l’uno verso l’altro che verso la Cina, sebbene la somma di importazioni ed esportazioni con la Cina raggiunga oggi oramai il 3-4% del PIL sia per gli Stati Uniti che per l’Europa. Queste cifre sono d’altronde una sottostima dell’importanza del legame commerciale tra i due blocchi, poiché non vi è incluso il commercio dei servizi (dati non ancora disponibili per il 2011), che raggiunge solitamente la metà del valore del commercio di beni industriali nei paesi occidentali. 

Un accordo di libero scambio (FTA) prevede l’abbattimento di tutte le barriere al commercio internazionale presenti tra i firmatari, siano essi dazi doganali o regolamentazioni delle caretteristiche di prodotto che si possono commerciare (sinteticamente, NTB, “Non-Tariff-Barriers”). Un esempio famoso delle seconde è il bando europeo all’importazione di OGM (organismi geneticamente modificati) dagli Stati Uniti.

Come sottolineato da vari analisti (si veda anche S. Suranovic su Aspenia online), i dazi tra USA e UE sono in media già piuttosto bassi, quasi la metà di quanto imposto verso gli altri paesi del mondo, all’1.5% e 1.1% per prodotti non agricoli (imposti, rispettivamente, dall’UE27 sulle importazioni dagli USA e viceversa) e al 4.8% e 2.1% su prodotti agricoli (medie pesate). Tanto bassi, si fa notare, da far dubitare dei benefici di un’ulteriore liberalizzazione. Anche una piccola sovrattassa applicata su un gran volume di scambio, tuttavia, può costituire un ostacolo rilevante per le imprese private ed una perdita di benessere per un paese. Questo è tanto più vero in un contesto globale in cui il processo produttivo di beni industriali è spezzato tra paesi ciascuno addetto ad un componente o fase, le cosiddette global value chains. Piccoli dazi applicati più volte su più componenti possono avere dunque un impatto considerevole sul prezzo del bene finale.  Inoltre, la media nasconde sostanziali differenze tra settori, alcuni dei quali relativamente protetti, come la componentistica per automobili (con dazi all’8% nell’UE).

Infine, il più grande vantaggio dell’accordo di libero scambio deriverebbe dalla progressiva convergenza e semplificazione regolatoria (la riduzione delle NTB), che secondo un rapporto del centro ricerche ECORYS del 2009 equivarrebbe ad un dazio del 10-20%. A beneficiarne di più sarebbero i servizi, che compongono circa tre quarti del PIL di entrambe le nazioni, ma che sono ad oggi in maggior parte non commerciabili a causa anche della mancanza di riconoscimento reciproco (si pensi per esempio ad un italiano che volesse ingaggiare un avvocato o un dottore Statunitensi per lavorare temporaneamente in Italia).

Si devono considerare poi i benefici che emergono nel tempo grazie alla restrutturazione dell’assetto produttivo nazionale successivo all’FTA: prezzi in media più bassi grazie alla competizione internazionale costringono i produttori meno efficienti a gettare la spugna, facendo spazio ad altri migliori di loro. Allo stesso tempo, la disponibilità di un maggior numero di beni intermedi, magari di qualità e prezzo diverso, possono incentivare l’innovazione e il miglioramento tecnologico della produzione, con beneficio sia per i consumatori che per i produttori stessi. Infine, il commercio internazionale è sempre più connesso ai flussi di capitali stranieri nei paesi partner, cioè gli investimenti diretti all’estero (IDE) – si pensi per esempio alla FIAT che investe nella Chrysler. Secondo il Center for Transatlantic Relations di Washington, nel 2010 il 60.3% delle importazioni statunitensi dall’UE e il 30.3% delle esportazioni statunitensi verso l’UE è avvenuto tra imprese appartenenti allo stesso gruppo multinazionale ma stabilite sui due lati dell’oceano. Il potenziale di stimolo alla crescita di questi IDE è anche più grande dei flussi commerciali tra i due continenti, se non altro per la loro taglia: nel 2011 le imprese europee avevano accumulato 1800 miliardi di dollari in IDE negli USA, mentre gli americani ne avevano 2300 miliardi in Europa (Fonte: OCSE).  

A fronte dunque di tutti questi benefici della liberalizzazione, perché non aver iniziato prima i negoziati? In realtà il progetto è stato abbozzato più volte in passato, per poi arenarsi a causa di resistenze da ambo le parti. Alcuni ostacoli, anche politicamente molto sensibili, si riproporranno questa volta: il bando europeo agli OGM o all’importazione di altri prodotti agricoli americani considerati non abbastanza “sicuri” per l’alimentazione umana; i sussidi all’agricoltura o all’industria aerospaziale da parte di entrambi i blocchi; il supporto ai lavoratori licenziati se impiegati nelle imprese colpite dalla maggiore competizione internazionale.

Si percepisce tuttavia una volontà politica forte a sostegno dell’accordo. È dovuta innanzitutto all’intensa ricerca di meccanismi che possano far ripartire la crescita economica a costo zero per le finanze pubbliche. Le stime della dimensione di questo stimolo variano in misura significativa a seconda della fonte, ma un team di accademici per la Commissione Europea (marzo 2013) colloca il beneficio allo 0.5% di PIL annuo in più per l’UE fino al 2027, e allo 0.4% per gli USA, a seguito dell’eliminazione totale dei dazi ed una riduzione del 25% delle NTB. Il calendario serrato delle negoziazioni sarebbe dunque giustificato dall’urgenza di rafforzare la crescita del PIL, ma anche dalla coscienza di essere di fronte ad un momento storico decisivo: la potenza commerciale cinese è in forte ascesa, e le proiezioni mostrano che presto sia gli USA sia l’UE commerceranno più con la Cina che tra di loro. L’accordo di libero scambio potrebbe permettere a Stati Uniti ed Europa di determinare, ancora per qualche tempo, le regole del commercio globale, senza passare per gli estenuanti (e, per i più, defunti) negoziati dell’OMC a Doha. Infine, le condizioni politiche nazionali sembrano favorevoli: da un lato il blocco europeo vede la Francia, da sempre su posizioni protezionistiche soprattutto per la propria agricoltura sussidiata dall’UE, in difficoltà economica e geopolitica a beneficio della Germania, più favorevole all’accordo. Dall’altro lato, Obama sembra voler consolidare i rapporti con il vecchio continente, ora che ha vinto alcune grandi battaglie di politica interna e il peggio della crisi europea del debito sovrano sembra passato. 

In conclusione, l’annuncio di un accordo di libero scambio tra USA e UE dovrebbe essere considerato una buona notizia per entrambe le sponde dell’oceano, grazie alla sua capacità di stimolare il commercio, l’afflusso di capitali e la riorganizzazione produttiva nelle nazioni coinvolte, aumentando in ultima analisi la crescita economica. Proprio l’urgenza di stimolare la crescita con ogni mezzo, e la diffusa consapevolezza del declinante ruolo di USA e soprattutto UE nella geopolitica globale, rendono credibile la prospettiva di negoziati più rapidi e pragmatici che in passato. Attendiamo però conferma dai fatti.