international analysis and commentary

Il Pakistan alla prova elettorale, tra USA, Cina e instabilità regionale

202

Non è una novità il fatto che i rapporti tra Pakistan e Stati Uniti siano difficili e spesso contraddittori. Ma, nell’avvicinarsi del disimpegno americano dall’Afghanistan, il Pakistan rischia di diventare un problema prioritario per Washington. È infatti proprio in questo paese che convergono linee di tendenza in palese contrasto con lo sforzo statunitense teso al contenimento della Cina, alla non proliferazione nucleare (anche per trovare risposte alle provocazioni nordcoreane), e alla guerra al terrorismo ingaggiata dopo l’11 settembre 2001. All’opposto, per la strategia cinese il Pakistan appare come una miniera di benefici senza serie controindicazioni.

L’11 maggio sono previste elezioni generali in Pakistan. La vittoria dell’uno o dell’altro dei maggiori partiti – il Partito del Popolo Pakistano o la bicefala Lega musulmana, il Partito nazionale Awami o il MQM (Movimento Muttahida Qaumi) – non dovrebbe determinare mutamenti radicali di politica estera. Un simile evento poteva essere semmai provocato dal rientro in patria di Pervez Musharraf, che ha fondato la Lega islamica di tutto il Pakistan, ma questa mossa, almeno per ora, si configura come un clamoroso flop. All’ex presidente della giunta militare al potere dal 1999 al 2008 è stato infatti proibito di candidarsi, ed egli si trova per ora in stato di arresto preventivo.

Resta il significato di fondo delle elezioni, ovvero il fatto che per la prima volta si chiude una legislatura di cinque anni in modo regolare e si apre la strada alla pacifica successione da un governo civile a un altro.  A meno di improvvisi sviluppi negativi (sempre in agguato, considerando l’altissimo livello di tensione che si vive nel paese e ai suoi confini), le elezioni sono un segno del consolidamento delle istituzioni democratiche e quindi, per definizione, un successo per la strategia americana. Al contempo, è evidente che il “governo civile” soffre di gravissime carenze: il tentativo di estendere la democrazia alle aree tribali e di dare soddisfazione alle istanze autonomistiche ha accresciuto gli spazi di manovra degli estremisti; le violenze interetniche e interreligiose sono aumentate; i gruppi integralisti islamici hanno lanciato una sanguinosa sfida per boicottare il voto. Il potere civile fatica a guadagnare credibilità a causa della corruzione, diffusa ai più alti livelli come indicano le inchieste in corso contro il presidente Asif Ali Zardari e l’interdizione a candidarsi ordinata nei confronti degli ultimi due primi ministri, Raja Pervez Ashraf e Yusuf Raza Gilani. Soprattutto appare anomalo il ruolo del potere giudiziario. In passato nel caotico avvicendarsi di governi civili e militari la magistratura ha svolto il ruolo di utile, talvolta coraggioso fattore di bilanciamento: ma nel “dopo-Musharraf” si è venuto a creare una sorta di “governo dei giudici” che rischia di fare deragliare le deboli istituzioni democratiche.

Insomma, le elezioni non possono bastare a rassicurare gli Stati Uniti, tanto più che sul fronte della politica estera – quello afghano in primo luogo – ci sono seri motivi per preoccuparsi. I metodi e gli obiettivi che Islamabad metterà sul tappeto per riempire il vuoto che il ripiegamento di americani e forze NATO lasceranno in Afghanistan poco o nulla hanno a che vedere con le aspettative dell’Amministrazione Obama. L’impossibilità di un’intesa è data dal fatto che i nemici dell’uno sono gli amici dell’altro e viceversa: Washington per stabilizzare l’Afghanistan del dopo 2014 conta molto sull’India, proprio ciò che nessun pachistano vuole. A Islamabad si fa invece affidamento su gruppi  estremisti ostili a Karzai (con il quale i rapporti non cessano di deteriorarsi); in particolare si punta sulla rete di Haqqani che, pur dopo tante esitazioni proprio per non peggiorare lo stato dei rapporti col Pakistan, Obama l’anno scorso ha inserito nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Incompatibili sono anche gli obiettivi. Al Pakistan non interessa la riconciliazione dei talebani e piacerebbe un Afghanistan debole per non dire frammentato. Washington aspira all’esatto contrario.

Ulteriore fonte di attrito è il ricorso americano sempre più massiccio ai droni per uccidere presunti terroristi in territorio pachistano, tattica che mette gli Stati Uniti in pessima luce di fronte all’opinione pubblica pachistana e spinge i partiti civili verso un nazionalismo di taglio anti-americano. Ciò si congiunge con i piani delle forze armate, oggi lealiste ma intenzionate a sostenere una propria linea politica: da sempre i generali, con o senza Musharraf, considerano il terrorismo una moneta da spendere senza parsimonia, tanto nello scacchiere afghano quanto nel Kashmir (dove il gruppo Lashkar-e-Taiba è non solo tollerato, ma anche ampiamente incoraggiato e sovvenzionato). L’approccio è quello che si può definire di un conflitto asimmetrico sotto l’ombrello nucleare: tale ombrello serve come deterrente nei confronti di rappresaglie indiane in conseguenza di atti di terrorismo e garantisce un intervento moderatore verso Nuova Delhi da parte degli Stati Uniti, ovviamente interessati ad evitare un conflitto nucleare tra le due potenze del sub-continente. Il risultato, comunque lo si guardi, è pessimo per Washington. Proprio nella fase in cui Obama enfatizza il suo impegno per la denuclearizzazione, la strategia pachistana, forse ancora più di quella nordcoreana, appare un ostacolo insormontabile a significativi passi avanti.

I rapporti tra Stati Uniti e Pakistan, insomma, si vanno deteriorando senza che si intravedano possibilità di un cambiamento di tendenza, mentre nella direzione opposta procedono i rapporti tra Islamabad e Pechino. Questi si stanno consolidando da decenni sulla base del comune obiettivo di contrapporsi all’India. Per il Pakistan la Cina è una generosissima fornitrice di armamenti e di assistenza tecnica per le proprie fabbriche di armi. Ma sono anche importanti gli investimenti operati dai cinesi per incentivare lo sviluppo economico del paese: e alcuni di essi, come il progettato oleodotto Iran-Pakistan o il potenziamento del porto di Gwadar, mutano il quadro strategico regionale. Per la Cina gli ottimi rapporti col Pakistan rappresentano un canale importante per penetrare nel mondo islamico, in particolare l’Asia centrale (ex-sovietica) sempre più contesa tra Pechino, Washington e Mosca. Inoltre Gwadar e i più facili collegamenti coi produttori di idrocarburi consentono a Pechino di aggirare le incertezze che nascono dal “dilemma di Malacca” e dalle tensioni lungo le rotte marittime più trafficate del pianeta.

Il settore più sensibile di questa alleanza di fatto, che ha portato l’ex presidente cinese Hu Jintao a considerare i rapporti tra i due paesi “più alti delle montagne e più profondi degli oceani”, è quello nucleare. La Cina ha avuto un ruolo chiave nella fornitura di tecnologia e materiale fissile che ha consentito al Pakistan di diventare una potenza atomica. Seppure manchino dati certi, alcuni considerano il programma nucleare pachistano per uso militare una “estensione” di quello cinese, e di recente mentre l’attenzione degli americani si è rivolta soprattutto alla Corea del Nord e all’Iran, la collaborazione si è intensificata. Il mese scorso la Cina ha venduto un nuovo reattore da 1.000 MW al Pakistan, malgrado l’affare possa configurarsi come una violazione degli accordi presi da Pechino con il Nuclear Suppliers Group, al quale ha aderito nel 2004. Ormai il Pakistan appare liberato dalla necessità di venire a patti con gli Stati Uniti per ottenere assistenza in campo nucleare come ha dovuto invece fare l’India nel 2008. 

In questo modo la presenza cinese in Pakistan diventa strutturale e crea una interdipendenza profonda, ben diversa dal rapporto che lega gli Stati Uniti al Pakistan e che non è mai diventato una vera alleanza, assomigliando più che altro a uno scambio tattico di favori. La situazione è molto diversa rispetto agli anni della guerra fredda: anche allora la diplomazia americana incontrava gravi difficoltà nel dare un minimo di coerenza alla relationship col Pakistan, ma ciò non aveva grandi ripercussioni strategiche, essendo il Pakistan risucchiato verso posizioni filooccidentali ed avendo le convergenze di Islamabad con Pechino in quella fase una chiave di lettura antisovietica. Quando ai tempi della presidenza Clinton, il problema principale divenne per Washington la corsa all’arma nucleare del Pakistan, i contrasti venivano digeriti grazie agli enzimi creati dal “nuovo ordine mondiale”. Ora invece ogni divergenza rischia di diventare un regalo alla Cina e alla sua proiezione di influenza che nel Pakistan trova terreno particolarmente fertile.