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Le ragioni di cauto ottimismo sull’Afghanistan

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Confidence is the center of gravity. Sembra essere questo l’ultimo mantra dei vertici ISAF (la missione internazionale sotto la guida della NATO) in Afghanistan. La speranza è che abbia più fortuna dei precedenti (il più famoso e abusato: winning the hearts and minds). Del resto è questa l’ultima occasione che ha la coalizione internazionale guidata dalla NATO per stabilizzare lo scenario afghano, prima dell’inizio del ritiro di buona parte dei contingenti militari, previsto per il 2014.

Per i pessimisti, avendo fallito lungo tutto il decennio precedente nell’obiettivo di sconfiggere i talibani (un’etichetta che nasconde un complessa galassia di movimenti islamisti, combattenti anti-governativi e semplici gruppi criminali), è improbabile che ISAF vi riesca ora, alla vigilia del proprio ritiro (parola che i nostri militari non usano mai, preferendole il più neutro termine di redeployment). Per la maggior parte dei comandanti NATO – e allo stesso tempo per i vertici politici e militari afghani – il 2013 potrebbe davvero essere l’anno di quella svolta tanto attesa e sempre mancata.

E in effetti, nei briefing militari con gli alti ufficiali di ISAF spuntano dati e informazioni che sembrano indurre a un cauto, prudente ottimismo. Innanzitutto, le forze di sicurezza e di polizia afghane (ANSF – Afghan National Security Forces) sembrano ora tenere meglio il terreno, riuscendo a rintuzzare gli attacchi dei talibani, nonostante il progressivo disimpegno delle truppe occidentali dai combattimenti terrestri e le fosche previsioni di molti esperti. Questa sequenza è quella prevista dal piano in cinque fasi che prevede l’affiancamento e la sostituzione, entro il 2014, di tutte le truppe straniere con contingenti nazionali. Certo, è evidente come l’azione delle ANSF debba continuamente essere sostenuta dalle truppe ISAF: nei distretti ove i talibani sono più forti, in prima linea vi sono ancora americani e inglesi; ISAF assicura un continuo sostegno logistico, di intelligence e di sostegno aereo durante i combattimenti; gli afghani perdono ancora troppi uomini – decine ogni settimana – spesso per colpa della preparazione affrettata dei loro ufficiali, buttati letteralmente allo sbaraglio dai comandi dopo pochi mesi di training. Ma quanto conta, ripetono, è ottenere dei successi: la famosa confidence nei propri mezzi e nella possibilità di farcela. E alcuni segnali di ottimismo sembrano venire anche dalle forze di polizia, note per la loro inaffidabilità e corruzione. “Stiamo raccogliendo finalmente il frutto del miglior coordinamento nel training attuato in questi ultimi anni”, dicono i comandanti. In più, si è avuta notizia nei mesi scorsi di reazioni da parte degli abitanti di distretti contro la presenza degli insorti: molti afghani sembrano non voler tornare indietro a prima del 2001, in un paese senza scuole, telefonini, tv, dispensari per la popolazione femminile.

Parallelamente, si nota un qualche segno di stanchezza anche nel composito fronte degli insorti. Secondo alcune stime, l’inizio della tradizionale fighting season di primavera mostra una leggera riduzione degli attacchi dei talibani. Per qualcuno è la riprova della tenuta delle ANSF e dei crescenti dubbi di molti capi degli insorti, che vorrebbero tentare dei negoziati con il governo Karzai (come quello in atto da tempo a Doha) prima di rilanciare le ostilità. Gli emissari del presidente Karzai sono molti attivi nei distretti della frontiera con il Pakistan, nelle zone pashtun, per contrattare – non sempre in modo limpido – degli armistizi con comandanti locali o con i gruppi di insorti considerati meno legati a Islamabad (che si ritiene stia boicottando ogni cessate il fuoco). Più prosaicamente, qualcun altro spegne gli entusiasmi, sostenendo che il decremento degli attacchi è colpa del tempo cattivo e di una primavera capricciosa. È certo comunque, che la strategia di eliminazioni mirate dei capi degli insorti stia producendo qualche effetto sul loro morale, tanto che si vocifera di numerosi avvicendamenti fra i comandanti sul campo degli insorti decisi dalla dirigenza storica dei talibani, asserragliata in Pakistan, fra Quetta e Karachi.

I prossimi mesi saranno da questo punto di vista decisivi. Se gli insorti falliranno nella conquista di distretti ad alto valore simbolico nel sud-est del paese, e se le forze di sicurezza nazionali terranno effettivamente il campo, si potrà guardare al post-2014 con maggior fiducia. Ma fondamentale – per fare davvero della confidence il centro di gravità dell’azione ISAF – è una transizione politica non pasticciata e non manipolata.

Nella primavera del 2014, infatti, scadrà l’ultimo mandato del presidente Karzai e da tempo, a Kabul, si gioca un rischio politico fra i possibili candidati per la ridefinizione delle regole elettorali. L’obiettivo della comunità internazionale è obbligare il governo di Kabul a non manipolare le prossime elezioni, evitando il disastro vergognoso delle elezioni del 2009, contrassegnate da brogli scandalosi e da controlli semplicemente inesistenti. Dare credibilità al sistema politico afghano è considerato prioritario tanto quanto la tenuta delle ANSF; anzi: secondo molte analisi, questi due elementi sono interrelati. Un fallimento militare favorirebbe la polarizzazione etno-settaria del panorama politico afghano, indebolendo i pashtun legati a Kabul a vantaggi degli altri gruppi etnici. Parallelamente, l’esplodere di conflittualità politiche per via di elezioni fortemente manipolate indebolirebbe le ANSF, frammentandole etnicamente e facendone crollare il morale.

In ogni caso, quale che sia il risultato di questi sforzi per stabilizzare l’Afghanistan prima del 2014, sono evidenti due fattori: il primo è che l’impegno internazionale non potrà venir meno. I governi occidentali sono comprensibilmente vaghi con le proprie pubbliche opinioni, per lo più contrarie all’impegno in questa lontana regione dell’Asia centrale; ma è impensabile immaginare che ISAF chiuda nel 2014. Per molti anni a venire, il governo di Kabul avrà bisogno non solo dell’aiuto economico e finanziario della comunità internazionale, ma anche di un sostegno militare tutt’altro che trascurabile: supporto aereo e d’artiglieria nelle operazioni, intelligence, logistica e soprattutto training. Per questo, non meno di 10.000-12.000 soldati occidentali dovranno rimanere stabilmente dislocati sul territorio.

Il secondo fattore è quello regionale, e in particolare il ruolo del Pakistan, considerato a Kabul come l’anima nera dei talibani, ostile a ogni ipotesi di accordo che non assicuri un grande potere di interferenza nelle vicende afghane al governo di Islamabad. Ogni tentativo di coinvolgere positivamente il Pakistan nella stabilizzazione del paese è finora fallito, anche per via delle fragilità del sistema politico pakistano e della indipendenza di cui godono le forze armate e – ancor più – i servizi segreti militari (ISI). Ma senza affrontare questo nodo geopolitico, tutti i miglioramenti delle ANSF sul campo rischiano di essere inutili.