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Tra sequester e pivot: l’industria militare USA

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Come si sta adattando l’industria militare americana all’evoluzione del contesto geopolitico mondiale? Il primo dato macroscopico è che – per combattere il terrorismo – nel decennio post-11 settembre, la spesa militare USA è raddoppiata. Almeno fino al 2008, le forze armate americane hanno però continuato ad acquistare esattamente gli stessi armamenti dell’era precedente. I teatri di guerra in Iraq e Afghanistan hanno presto evidenziato la problematicità di quelle scelte – anche se c’è stato un certo ritardo nel prenderne atto.

Con la presidenza Obama, vi sono stati importanti cambiamenti: da una parte l’amministrazione ha provveduto al ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan e ha promosso un riposizionamento geopolitico verso l’Asia e il Pacifico. È quindi emersa la domanda per nuovi tipi di armamenti. Dall’altra parte, per via della crisi finanziaria, il debito federale è esploso. L’assenza di un accordo tra Democratici e Repubblicani ha quindi portato a tagli automatici di spesa anche al Pentagono (il sequester) che hanno avuto degli importanti effetti tanto sulle forze armate che sull’industria militare – ovvero sulla capacità di produrre quegli armamenti.

Per meglio comprendere quest’ultimo aspetto, bisogna però considerare almeno altri due elementi. Con la fine della guerra fredda, la spesa militare statunitense si è inizialmente ridotta e sebbene l’industria militare sia stata consolidata, pochissimi impianti di produzione sono stati chiusi: da strumento di difesa contro l’URSS, questi sono così diventati un mezzo di protezione contro la disoccupazione.

Parallelamente, le forze armate americane – divise nei loro tre servizi (Esercito [Army], Marina [Navy] – che comprende anche il corpo anfibio dei Marines – e Aviazione [Air Force]) – hanno lanciato una serie di futuristici programmi d’arma che, se nelle intenzioni dovevano sfruttare la “rivoluzione IT” per fornire capacità militari estremamente avanzate, in realtà hanno bruciato enormi risorse, accumulato ritardi mastodontici e prodotto sistemi spesso discutibili dal punto di vista operativo: il Future Combat System (FCS) dello US Army è stato eliminato, il Littoral Combat Ship (LCS) della US Navy è stato fortemente ridotto, mentre l’F-35 Joint Strike Fighter (JSF) è soggetto a continue critiche, ma verosimilmente si salverà perché, come certe banche, è too big to fail.

Il problema di questi programmi ricorda l’errore commesso da Sony alla fine degli anni Novanta: con il suo MiniDisc, l’azienda giapponese ha cercato di sfruttare nuove potenzialità tecnologiche sulla base di un concetto già esistente, il CD-Rom. Apple, con l’iPod, ha invece fatto una scelta profondamente diversa, mostrando la necessità di ideare prodotti concettualmente rivoluzionari per sfruttare le opportunità offerte da trasformazioni tecnologiche radicali.

In questo contesto tecnologico, non stupisce che il programma d’arma che più ha caratterizzato la guerra al terrorismo, il drone RQ-1 Predator e il suo successore, l’MQ-9 Reaper, sia stato sviluppato da un’azienda relativamente piccola, fuori dai grandi contratti militari e saltando a piè pari la burocrazia del Pentagono. Ciò si è verificato anzi con una notevole resistenza della US Air Force, e sulla base di un’architettura di sistema molto innovativa se non rivoluzionaria.

Su questo sfondo vanno letti i tagli di Obama al bilancio militare e il pivot asiatico. I tagli al bilancio del Pentagono scattati a partire dal 2011 hanno dato vita ad aspri conflitti tra le principali constituencies: senatori e congressmen, aziende militari, i vari servizi delle forze armate e le loro differenti sotto-unità, oltre alle varie branche dell’amministrazione (soprattutto Pentagono e dipartimento di Stato). L’interazione tra queste forze determinerà la direzione dell’industria militare americana nei prossimi anni.

Dove si va, dunque? In primo luogo, se calano gli ordini, gli stabilimenti produttivi diventano meno efficienti: ciò chiede una ristrutturazione dell’industria. Finora, anche per via della modesta portata dei tagli finora osservati, non si è praticamente visto alcun consolidamento. Su questo terreno avrà luogo la prima grande battaglia: se Washington darà priorità ai posti di lavoro, le capacità industriali e tecnologiche – e quindi militari – degli Stati Uniti non potranno che ridursi, almeno in assenza di un’inversione di rotta con nuovi aumenti di spesa.

In secondo luogo, l’export può servire per sopperire alla mancanza di ordini domestici. L’industria militare americana chiede, da tempo, una rivoluzione nelle norme che regolano l’export di armamenti (export control): alcuni passi sono stati fatti, ma – anche per monitorare il trasferimento di tecnologie sensibili – non tutte le richieste dell’industria sono state esaudite.

Si noti come, in alcuni casi, la posta in gioco sia anche politica. Per esempio, la costruzione dello scudo missilistico in Asia richiede cooperazione e interoperabilità fra i vari Paesi coinvolti (Giappone e Corea del Sud in primis) e i loro sistemi militari: se però gli Stati Uniti non concedono ai loro partner l’accesso a determinate tecnologie, l’intera infrastruttura è inevitabilmente destinata ad incontrare difficoltà.

In terzo luogo, finora i tagli al bilancio del Pentagono hanno privilegiato quei programmi d’arma operativamente utili ma con pochi “padrini” tra i politici e le forze armate. Per esempio, in una prima tornata di tagli, tra le vittime si contavano il Boeing EA-18G Growler e il Fairchild Republic A-19 Thunderbolt II, due modesti aerei da combattimento – per electronic warfare e close air support, rispettivamente – che però si sono dimostrati estremamente efficaci in tutti i più recenti conflitti. Parimenti, a inizio anno la US Air Force ha dato priorità ai suoi programmi preferiti – quelli con piloti – svantaggiando invece le capacità militari del futuro, come i droni.

Qui arriviamo all’ultimo punto, il pivot in Asia. L’industria militare si sta avvicinando ad un possibile big bang tecnologico: la sintesi che arriva quando i progressi registrati in campi differenti si incrociano dando vita a piattaforme rivoluzionarie. Attualmente, questi campi spaziano dall’automazione ai materiali, dalla produzione di energia all’elettronica, dalla propulsione alle comunicazioni. Se gli Stati Uniti non saranno in grado di sfruttare questa trasformazione tecnologica, e quindi la loro industria militare non si saprà adeguare, le principali conseguenze saranno geopolitiche. La sfida però non è solo, o necessariamente, di risorse, come gli esempi dell’FCS, LCS e JSF suggeriscono.

A inizio Novecento, la Gran Bretagna si trovava in una situazione analoga: crisi finanziaria, instabilità internazionale, crescita di un potenziale nemico (in quel caso, la Germania). Inizialmente, sotto la leadership dell’ammiraglio Sir John Fisher, il Paese sfruttò la trasformazione tecnologica per lanciare diverse innovazioni militari (i sottomarini, la Dreadnought i battle-cruiser e la loro integrazione nella flotilla defense), stabilizzare la propria posizione finanziaria (ritirando tutte le piattaforme obsolete) e mantenere così inalterata la sua posizione geopolitica. Successivamente, un mix di resistenza burocratica all’interno della Royal Navy e pressioni domestiche, dirottarono la politica di difesa Britannica. Il risultato fu l’incapacità di neutralizzare la guerra sottomarina tedesca.

L’amministrazione Obama si trova di fronte ad una sfida analoga: la sua abilità di neutralizzare resistenze burocratiche all’interno delle forze armate americane e di affrontare varie pressioni domestiche determinerà l’evoluzione delle sue capacità militare e, in ultima istanza, di quelle tecnologiche.