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Un nuovo raìs, tra lotta agli islamisti e priorità economiche

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Una maggioranza tanto “bulgara” quanto imbarazzante. Così, l’ex capo delle forze armate Abdel Fattah el-Sisi si trasforma nel successore del presidente da lui deposto 11 mesi fa, l’islamista Mohamed Morsi ora in carcere con tutta la dirigenza della Fratellanza musulmana. Il 97% dei voti incassati dall’ex generale ha in realtà il sapore di un plebiscito, rovinato però da quella che è stata percepita come un’affluenza così scarsa da far tenere i seggi aperti un giorno in più. A legittimare l’ascesa al potere dell’ennesimo uomo con le stellette al petto è stato alla fine il 47% di un elettorato ricco di donne e scarso di giovani.

Anche se ci si è sforzati per descriverlo come democratico, è difficile definire il contesto nel quale si è svolto il voto – le cui operazioni sono state in effetti conformi alla legge – come tale. Prima di raccogliere una scarsa manciata di voti, Hamdeen Sabahi, l’unico sfidante di Sisi (che ha anche presentato un ricorso alla commissione elettorale), ha partecipato a una campagna elettorale nel corso della quale ha dovuto saltare ostacoli molto più alti rispetto a quelli del suo avversario. Dalla presenza sugli schermi televisivi, a quella sui manifesti elettorali. Come ammette il comunicato della missione di monitoraggio svolta dall’Unione Europea, la campagna elettorale è sfuggita al controllo della commissione che ha vigilato sul voto. È anche per questo che la stampa internazionale ha definito Sisi come il nuovo faraone, o il Bonaparte ritrovato che zittisce le voci stonate.

Per la maggioranza degli egiziani, l’ex generale è però in primis l’uomo che “ha salvato il paese dal terrorismo islamico” e che, come ha dichiarato lo stesso Sisi nel corso di un’intervista pre-elettorale, sta sotterrando la Fratellanza musulmana. Anche a prescindere da ogni valutazione sulle violazioni dei diritti umani relative alla nuova ondata repressiva nei confronti della Confraternita, è prematuro affermare che la morsa di Sisi abbia seppellito definitivamente l’Islam politico egiziano. Storicamente, i Fratelli si sono mostrati più pericolosi nei momenti in cui sono stati esclusi dalle dinamiche politiche. Spesso, il ricorso a strumenti autoritari non è risuscito a estirpare le tendenze più estremiste. Basta ricordare quanto avvenuto in Algeria negli anni Novanta. Anche se la storia non si ripete mai nello stesso modo, la Fratellanza ha fino ad ora dimostrato di aver sviluppato anticorpi contro repressione e clandestinità. L’annuncio di Sisi potrebbe quindi essere solo l’ultimo nella lunga lista di quelli che hanno dato per morto l’Islam politico già troppe volte.

Ciononostante, il solo fatto che Sisi abbia tagliato i vertici della Confraternita lo rende – agli occhi dei suoi sostenitori – un eroe nazionalista al pari dell’ex presidente Gamal Abdel Nasser. Questo spiega da dove viene almeno parte di quel culto della personalità riservata da mesi al nuovo presidente. Proprio la “Sisi-mania” che ha contributo a incoronare l’ex generale rischia però di essere la prima spina nel fianco che potrebbe ritorcersi contro di lui.  Viste le grandi aspettative che si sono generate, che cosa accadrà quando Sisi dovrà abbandonare la vaghezza della sua campagna elettorale – priva di un vero programma – per passare dalle parole ai fatti? Riuscirà a stare in sella al paese?

Anche se attualmente gode di un grande sostegno popolare, un sondaggio realizzato da Pew International alla vigilia del voto ha mostrato che questo si sta già in effetti erodendo; ciò anche a causa della crescente insoddisfazione di quei giovani (la maggioranza della popolazione) che non sono andati a votare perché non riescono a sentirsi protagonisti di quel “nuovo” Egitto che hanno iniziato a costruire partecipando alla rivoluzione del 2011. Per conquistarli, Sisi dovrà trovargli in primis un lavoro. Impresa non facile, visto che il tasso di disoccupazione è superiore al 13% e, nel 70% dei casi, colpisce giovani istruiti tra i 15 e i 29 anni.

Oltre ai giovani, il nuovo presidente dovrà pensare a quel quarto di popolazione che vive con due dollari al giorno e all’altro quarto che è poco al di sopra di questa soglia.

È in effetti l’economia la materia più urgente sulla quale il nuovo raìs sarà “esaminato”; e la stagione non gli permette di essere rimandato. Il caldo richiede energia per far funzionare i condizionatori, ma i quotidiani black out a cui è abituato chi vive al Cairo mostrano che le autorità non sanno bene né dove né come trovarla. Anche se ci sono piccolissimi segni di ripresa, per rimettersi in moto l’economia egiziana ha bisogno di riforme realizzabili solo in un contesto stabile. Dal giorno della deposizione di Morsi, l’Egitto è tenuto a galla dal Golfo, le cui monarchie hanno staccato una serie di assegni per un totale di circa 12 miliardi di dollari. La stampella araba sta permettendo all’Egitto di non fallire, ma non di avviare un decollo economico.

Un vero decollo necessita di una serie di riforme che iniziano dai tagli a quei fondi destinati ai sussidi che divorano ad oggi un quarto del budget statale. Il governo dei militari ha già implementato un progetto pilota che prevede il rilascio di una smart card che permette al compratore di acquistare una certa quantità di beni di prima necessità. Anche se al momento il piano è stato sperimentato solo per il pane e nella località di Port Said, si pensa a un’iniziativa simile per la benzina. Così facendo, il governo intende monitorare la quantità esatta di prodotti acquistati, evitando di foraggiare il mercato nero e limitando gli sprechi.

Parlare di tagli ai sussidi, riforma che chiede in primis il Fondo monetario internazionale, è impopolare. In passato, tali tagli hanno creato vere e proprie rivolte del pane. D’altra parte, molti dubitano fortemente della reale volontà della leadership di lanciare un programma di riforme incisive: ad esempio, un Wikileak del 2008 confermava  che i militari – gli stessi che ancora oggi gestiscono una buona fetta dell’economia egiziana – non hanno mai creduto sinceramente in un’economia di libero mercato che ridurrebbe il controllo statale (dunque la loro influenza) sull’economia.

Forse Sisi ci sorprenderà con un impeto di coraggio, ma le premesse non sono di buon auspicio. Il prezzo per stabilizzare – con la forza – il paese sembra troppo alto per essere sostenibile. L’unica alternativa sarebbe un grande sforzo di trasformazione riformista. Trasformando la polarizzazione politica in competizione elettorale, sarebbe necessario includere le diverse anime del paese nelle dinamiche politiche. Per ora però, non si vede nessun segnale.