international analysis and commentary

Tanti latinos. Gli ispanici e la questione della leadership

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Se le elezioni di medio termine dello scorso novembre hanno confermato il peso del voto ispanico nella vita politica americana, hanno anche accentuato l’interesse per il profilo socio-culturale e le dinamiche politiche interne alla più consistente minoranza del paese.

Che cosa rappresenta per la vita pubblica americana questo 16% della popolazione – secondo i dati del Census Bureau del 2009 – che nel 2050, si stima, salirà al 29% (a fronte del 47% di bianchi)? Una minoranza destinata a diluirsi nella cultura mainstream, come è stato per le comunità di immigrati europei che l’hanno preceduta, oppure un’entità aliena e non assimilabile, come ha argomentato, tra gli altri, Samuel Huntington? L’analisi del voto dello scorso novembre tende a vedere negli elettori ispanici uno swing group che preferisce nettamente i democratici per ragioni congiunturali e specifiche, ma non in modo incondizionato, e non è insensibile al conservatorismo culturale e all’afflato religioso della destra. Ne consegue che il sistema politico americano, grazie alla sua apertura e flessibilità, sembrerebbe in grado di includere nel proprio gioco anche questa nuova ondata, o presunta minaccia – come peraltro è avvenuto da quasi due secoli a questa parte, cioè dalla rivolta nativista e anti-cattolica dei Know-Nothing in poi. Ma l’analogia tra il ruolo politico della comunità ispanica e quello dei white ethnics del passato va maneggiata con cura, se non altro alla luce dell’eterogeneità culturale, religiosa e razziale dell’emigrazione dall’America latina, che sembra poter mettere in discussione la storica dicotomia bianco/nero fin qui imposta dalla color line alla politica e alla società americana.  

Uno sguardo alle (poche) figure che si stanno profilando come potenziali leaders della comunità ispanica evidenzia questa eterogeneità.

Secondo i dati di un rilevamento condotto dal Pew Hispanic Center poco prima del voto di medio termine emerge innanzitutto che non esiste una riconosciuta leadership ispanica a livello nazionale. Alla domanda su chi fosse “il più importante ispanico nel paese oggi” il 64% degli intervistati ha risposto “non lo so” e il 10% “nessuno”. La figura pubblica più riconosciuta è il giudice della Corte Suprema Sonia Sotomayor, indicata dal 7%. Seguono Luis Gutierrez, congressman democratico di Chicago (5%), il sindaco di Los Angeles Antonio Villaraigosa, anch’egli democratico (3%), e Jorge Ramos (2%), volto di punta di Univision, il maggiore network radio-televisivo in lingua spagnola; nessun altro potenziale leader viene riconosciuto tale da più dell’1% degli intervistati. Anche alla luce del fatto che non è ipotizzabile un ruolo attivo di rappresentanza e mobilitazione da parte di Sotomayor, che anzi per il suo ruolo sarà prevedibilmente assai attenta a non offrire il fianco a accuse di partigianeria etnica, politica o di genere, il primo dato che emerge è quindi la frammentazione della leadership politica ispanica negli Stati Uniti. 

È difficile in questo momento affermare se questa frammentazione, o molteplicità, sia ora e in prospettiva futura sinonimo di debolezza o di forza. Sicuramente i dati di questo sondaggio riflettono la diversità della comunità latina in America, accomunata dalla lingua e – in misura sempre minore – dalla religione cattolica, ma assai diversificata al suo interno. La Sotomayor è divenuta repentinamente l’unica figura davvero nazionale ma è politicamente fuori gioco, come si diceva prima. Mentre Gutierrez e Villaraigosa sembrano destinati a muoversi all’interno di territori circoscritti, per quanto non marginali.

Il primo si sta affermando come uomo di punta dei democratici impegnati sul fronte dell’immigrazione alla Camera dei rappresentanti. Di origini portoricane, ha iniziato la sua politica nella Chicago della coalizione black-brown capeggiata dal sindaco Harold Washington negli anni ottanta. Dal 1992 in poi è stato eletto alla camera bassa in un distretto disegnato appositamente per comprendere nello stesso perimetro due diversi quartieri ispanici della città, uno a prevalenza portoricana e l’altro a prevalenza messicana – caso esemplare di gerrymandering, di cui si è occupato anche l’Economist. In passato si è distinto per le sue posizioni “indipendentiste” sullo status di Puerto Rico, e dopo le elezioni di medio termine è tornato a incalzare Obama in merito all’approvazione del DREAM Act, disegno di legge che giace in Congresso da anni e che permetterebbe la regolarizzazione selettiva di giovani immigrati irregolari che abbiano servito nelle forze armate o frequentato l’università per almeno due anni. Ma l’appeal di Gutierrez al di fuori della sua base tradizionale è tutto da dimostrare; non a caso ha accantonato la sua ipotesi di candidatura a sindaco di Chicago era apparsa debole anche prima della sfida lanciata da Rahm Emanuel.

Del resto, nella città di Obama gli ispanici rappresentano un quarto della popolazione, ma solo il 15% dei ‘registered voters’. Non così a Los Angeles, dove le percentuali salgono rispettivamente al 47% e al 25%. Qui dal 2005 regna Antonio Villaraigosa, ex wonder boy di origine messicana nato e cresciuto nel turbolento East Side angeleno, la cui elezione a sindaco fu salutata prematuramente come una svolta “post-etnica” con possibili implicazioni nazionali. Villaraigosa, partendo dalla sua constituency latina, si era subito accreditato presso l’elettorato bianco liberal e quello ebraico, mentre solo con la conferma del 2009 ha ottenuto un buon risultato tra gli afro-americani, cosa non sorprendente in una città in cui le tensioni tra ispanici e neri sono state più forti che altrove. Ma i sondaggi in calo e il margine tutt’altro che schiacciante con cui ha ottenuto la prevedibile rielezione indicano che i rumors privati e le controversie pubbliche che lo circondano da tempo – dall’infedeltà coniugale al nepotismo – ne hanno appannato l’immagine a livello locale e nazionale.

È noto che la politica americana è fatta di rapide ascese e altrettanto rapidi declini. Come quello di Alberto Gonzales, ministro della Giustizia dell’amministrazione Bush, ora impegnato a insegnare un corso di scienza politica alla Texas Tech University e a cercare un editore per le sue memorie. In campo repubblicano non mancano le rising stars ispaniche, come il neo-senatore di origine cubana Marco Rubio, ma è difficile prevedere se e quando una di queste potrà trascinare la comunità ispanica nella values coalition conservatrice vagheggiata da Karl Rove.

È certo invece che questa “emerging minority” di lingua spagnola non ha il suo Martin Luther King né la sua Susan B. Anthony, e non è detto che ce l’avrà in futuro. Forse neanche un César Chávez, leader carismatico della United Farm Workers e delle lotte sindacali in California, attualmente rappresenterebbe e impersonerebbe una comunità così multirazziale e multinazionale, policentrica e magmatica, capace di far vacillare non solo la color line, ma anche il mito della leadership nella politica americana.