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Steve Jobs: una storia americana

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Nel 2007, uno spot non autorizzato dalla campagna dell’allora senatore Obama creò un caso politico e mediatico. Per un minuto e quindici secondi si osservava una donna correre in mezzo a una folla di figure grigie che marciavano mute verso uno schermo sul quale scorrevano immagini di Hillary Clinton, avversaria del senatore nelle primarie democratiche. Alla fine dello spot la donna lanciava un martello contro lo schermo e i titoli di coda spiegavano che il 2008 non sarebbe stato come il 1984 descritto da George Orwell. Infine compariva una “O” maiuscola a strisce colorate disegnata come la mela, logo della Apple computers. Quello spot pro-Obama non aveva nulla di originale: era la copia contraffatta di una pubblicità della multinazionale presieduta da Steve Jobs andata in onda durante l’intervallo del Super Bowl nel 1984, considerata una delle più riuscite della storia. All’epoca il promo era stato scartato dagli addetti al marketing dell’azienda e ripescato proprio da Jobs.

Lo scalpore creato nel 2008 utilizzando una trovata vecchia di oltre vent’anni, il cui messaggio viene generalmente interpretato come un invito all’empowerment attraverso la facilità di accesso alla tecnologia – ma anche al distinguersi dagli altri – è uno dei tanti segnali della prodigiosa capacità che aveva Steve Jobs di cogliere in anticipo dove vanno i tempi. E di plasmarli creando prodotti-oggetti di culto che cambiano il modo di percepire e fruire una tecnologia e modellano il modo in cui questa verrà utilizzata, condizionando il nostro modo di vivere. È stato così con i personal computer, con il modo di consumare la musica, con il telefono cellulare, infine con i tablet. Ogni volta un’idea e un successo enorme che i concorrenti si affrettavano a riprodurre in qualche forma.

L’ossessione per l’innovazione e l’immaginazione sono forse i tratti che rendono il manager di Cupertino un punto di raccordo tra diverse generazioni, trasformandolo in un’icona globale in questi tempi di crisi e ricerca d’ispirazione, individuale e collettiva. La vicenda personale e professionale di Steve Jobs tiene assieme molti aspetti di una tipica narrazione americana, della quale l’America ha oggi grande nostalgia. Quello del ragazzo di un tipico sobborgo che impara dal padre adottivo e dai vicini di casa impiegati nelle fabbriche di computer a smontare e rimontare; quello del sognatore ribelle della generazione cresciuta nel nord della California; quello dell’imprenditore che riesce a vedere nei computer sviluppati dai suoi brillanti compagni nel garage qualcosa che può diventare un’impresa di successo, un oggetto di consumo per tutti. Il visionario e ambizioso creatore fondeva lo spirito dei sixties californiani e la sfrenata corsa all’innovazione e al fare impresa degli anni Ottanta, tramutatasi in merci alla portata di tutti nel decennio successivo. La stessa storia personale dell’imprenditore Jobs è un racconto della capacità di coniugare un certo modo di essere alternativi e gli “spiriti animali” del capitalismo.

Creando un sistema sostanzialmente chiuso – per anni gli utenti Macintosh non hanno potuto viaggiare su altri sistemi operativi – Jobs ha tenuto insieme questo suo mondo alternativo utilizzando due elementi caratteristici del sogno americano: la realizzazione individuale di un grande disegno (con il quale riuscire a superare i limiti del convenzionale e del conosciuto), e la costruzione di una comunità autosufficiente, con i suoi miti, riti, valori. Individuo e comunità, la storia dell’America.

 La fase di esilio da Apple è anche quella della trasformazione di Jobs, più riflessivo e meno nerd californiano: anche qui troviamo un pezzo di mito americano, quello della rinascita. Il suo ritorno a casa segna anche il suo trionfo: quella della Apple degli anni in cui è stato l’amministratore delegato è la storia di una vera e propria resurrezione, quella del born again geek. E anche in questo caso la chiave del successo sono le idee originali e un piglio manageriale piuttosto duro: appena rientrato fece dei tagli al personale e ai costi; poi mise in produzione l’iMac, PC dal design accattivante che divenne il primo successo dell’azienda dopo anni.

Il paradosso della Apple di Steve Jobs – e quindi la innegabile forza del personaggio – è anche il legame inscindibile tra il manager e l’impresa. Quasi che, la multinazionale che produce in tutto il mondo ed ha una catena di negozi di proprietà dove commercializza i suoi prodotti fosse un’impresa familiare. Jobs non era il manager tecnocrate, che studia le strategie di marketing. Egli stesso, vestito sempre allo stesso modo, presentava al mondo i nuovi prodotti con un’ammirazione quasi ingenua – “Per il nostro nuovo prodotto abbiamo scelto la musica. Perché? Perché amiamo la musica ed è sempre bello fare qualcosa che si ama”, spiegava nel 2001 al MacWorld Trade Show, l’appuntamento annuale di presentazione dei prodotti, svelando al mondo l’iPod. La sua capacità di creare un’aspettativa enorme, le presentazioni di quelle che apparivano sempre come delle sue creature erano parte del marchio. E anche per questo, pochi giorni fa, per la prima volta da anni, il lancio dell’ultimo nato tra gli iPhone non ha funzionato.

La fusione tra doti manageriali, capacità di innovazione costante e un ego spropositato sono caratteristiche che sembrano, dopo Jobs, essere divenute elementi indispensabili al successo delle imprese dell’età dell’informazione. Tutti i giganti di questi anni offrono ai loro clienti o utenti qualcosa con cui identificarsi e sentirsi speciali. Non c’è giovane miliardario o brand statunitense del giorno d’oggi – e su questo terreno gli USA sono ancora davanti a tutti gli altri – che non abbia in qualche modo studiato attentamente questa specie di fratello maggiore. Non i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, che hanno come obiettivo quello di “organizzare l’informazione esistente e renderla universalmente accessibile e fruibile”, come recita il mission statement dell’impresa di Mountain View. Non l’ultimo arrivato, Mark Zuckerberg, che comunica le novità direttamente in video con le decine di milioni di iscritti al social network di sua creazione. Tutti sono ossessionati dall’idea di dover vendere qualcosa di più che non dei semplici prodotti. E adesso, forse, sono ossessionati dal fantasma di Steve Jobs.

C’è allora una domanda cruciale da porsi: basterà la capacità di creare questa forma di valore aggiunto a tenere l’America davanti a tutti, a far ripartire la corporate America?

È quello che sperano in tanti – Obama in testa – anche se esistono limiti strutturali che indeboliscono la portata del successo di questo settore industriale, soprattutto in tempi di crisi: se è vero che il mondo oggi guarda a Apple, Google, Facebook e Amazon come costruttori di futuro, creatori di nuove strade per il business e i servizi, dobbiamo anche ricordare che queste imprese danno lavoro (tutte insieme) a 113 mila addetti. Un terzo della sola General Motors nel 1980. “Designed by Apple in California, Assembled in China”: va benissimo così, ma servono nuove idee alla Steve Jobs per andare ancora oltre.