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L’architettura degli aiuti americani in Medio Oriente

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Gli Stati Uniti hanno una politica consolidata in Medio Oriente, che si basa sull’alleanza con Israele, il mantenimento della stabilità interna in Egitto, la solidità della cooperazione con l’Arabia Saudita (che ospita le loro basi militari), e donazioni e aiuto allo sviluppo per l’Autorità Palestinese. Washington investe così milioni di dollari l’anno, ma la competizione incrociata tra questi paesi e la conflittualità che ruota attorno a Israele rendono l’architettura diplomatica e di sicurezza americana piuttosto precaria. Il Trattato di pace israelo-egiziano può considerarsi l’architrave della politica statunitense nella regione, ma oggi sono profondamente cambiati i termini del problema che esso ha a suo tempo voluto risolvere: le società civili arabe sono ben più attive, e il Medio Oriente non rischia di cadere sotto l’influenza di una potenza esterna ostile come l’Unione Sovietica. In un nuovo contesto, anche la politica degli aiuti economici va valutata diversamente.

Molti analisti americani, e sempre più spesso gli elettori, si mostrano assai più scettici che in passato rispetto all’efficacia dell’impegno economico nella regione – soprattutto alla luce della crisi economica e degli scarsi risultati diplomatici raccolti negli ultimi anni.

Secondo il Washington Report of Middle Eastern Affairs del 2008, un rapporto annuale redatto all’American Educational Trust, Israele, ha percepito circa 2 miliardi e 423.000 dollari di aiuti annuali negli ultimi quindi anni, la maggioranza dei quali destinati a sostenere spese militari. C’è poi un fondo speciale specificatamente assegnato alla difesa: i Defense Department Funds sostengono il budget della difesa israeliano con circa altri 450 milioni di dollari annui. Nell’anno fiscale 2011, però, tali aiuti sono cresciuti a 3 miliardi, in linea con la decisione dell’amministrazione Bush che aveva previsto un’erogazione di 6 miliardi aggiuntivi in dieci anni – decisione che l’amministrazione Obama ha rispettato. Tali aiuti vengono erogati a Israele con un trasferimento fisso ad un mese dal varo del nuovo anno fiscale. Altri aiuti riguardano la cooperazione economica e scientifica tra i due paesi: in particolare il BARD (Binational Agricultural and Research and Development), che riceve circa 500.000 dollari all’anno dal Dipartimento per l’Agricoltura. A fronte di tali aiuti, Israele non tollera però alcuna pressione sulle scelte di politica interna, neppure su quelle che investono sensibili questioni di diritto internazionale come l’ampliamento dei settlements.

Il secondo destinatario di aiuti nella regione è l’Egitto: il paese risulta beneficiario di 2 miliardi di aiuti netti, di cui 1.3 miliardi di dollari sarebbero indirizzati al rafforzamento delle forze armate (un terzo per la manutenzione delle armi, un terzo per il loro ammodernamento e l’ulteriore terzo per nuovi acquisti). Vi sono 250 milioni in aiuti economici e quasi altri 2 milioni (1.9) destinati alla cooperazione economica di lungo periodo tra i due paesi. Altre milioni in forniture di armamenti sarebbero forniti direttamente del Pentagono. Complessivamente, secondo le stime di un recente rapporto del Congressional Research Service (21 settembre 2011), un’agenzia di ricerca di supporto al congresso USA, circa l’80% dei costi di approvvigionamento di armi del ministero della Difesa egiziano sarebbero coperti dagli aiuti americani. Dal 2009, sarebbero stati invece ridotti gli aiuti inizialmente destinati alla promozione della democrazia, con tagli di 20 milioni annui. A fronte di questo ingente impegno finanziario, gli USA avrebbero ottenuto molto nell’era Mubarak – con le garanzie sulla sicurezza dei confini con Israele, la chiusura del valico di Rafah con Gaza, la lotta al terrorismo islamico e l’effetto stabilizzatore dell’Egitto sull’intera area. Ma non è chiaro se il nuovo Egitto uscito dalla recente rivoluzione riuscirà a fornire rassicurazioni sul rispetto degli stessi impegni. Il presidente Obama ha mostrato, comunque, di non aver intenzione di decurtare gli aiuti, in segno di buona volontà e di sostegno al processo democratico in corso.

È chiaro, in ogni caso, che l’Alto Comando Militare (SCAF) egiziano si trovi tra l’incudine e il martello: da un lato non intende rinunciare agli aiuti americani, il che comporterebbe un declassamento delle forze armate egiziane con una conseguente perdita di potere anche all’interno del paese; dall’altro non può esonerarsi dal recepire almeno alcune delle richieste che giungono dalla società civile in chiave anti-israeliana (in particolare, c’è la richiesta a Israele di compensare le vittime egiziane della recente incursione dell’IDF oltre confine).

Nel quadro degli aiuti economici americani, c’è poi il sostegno all’Autorità Nazionale Palestinese, destinataria di una quota molto più bassa di aiuti, pari a 600 milioni di dollari annuali – di cui 200 milioni in contributi diretti al budget dell’ANP, circa 100 milioni per l’addestramento della polizia e i restanti 300 milioni in progetti di sviluppo per la West Bank e la Striscia di Gaza. È un importo comunque indispensabile al finanziamento del budget dell’ANP. Altri 61.5 milioni vengono assegnati all’ANP tramite l’aiuto umanitario emergenziale e 4.8 milioni diretti all’UNWRA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei bisogni primari dei rifugiati palestinesi da più di sessant’anni.

La decisione di Obama di tagliare i 200 milioni di aiuti per il budget dell’ANP, a seguito della presentazione della domanda di riconoscimento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riflette proprio la fragilità – e forse la miopia – della politica americana nella regione.

Nel caso dell’Egitto, la richiesta di decurtare gli aiuti (avanzata da alcuni Repubblicani) era stata respinta; rispetto ai palestinesi si rischia ora di sprecare parte del leverage economico americano senza trarre alcun tangibile vantaggio.

Gli Stati Uniti avrebbero avuto altri strumenti per far sentire la propria voce sull’ANP: soprattutto approntare un’alternativa che rimettesse effettivamente in moto il processo di pace, con una promessa appetibile che Abbas avrebbe potuto presentare ai suoi concittadini. In assenza di una controproposta a fronte del veto israeliano, gli Stati Uniti si sono mossi verso il boicottaggio dell’azione palestinese all’ONU in forme simboliche, pur sapendo che l’ANP è ormai senza reali alternative.

Analizzando l’insieme degli aiuti devoluti ai vari paesi della regione, resta da chiedersi perché, a fronte della mancata moratoria sugli insediamenti ed altre scelte fortemente unilaterali del governo Netanyahu, l’amministrazione Obama non abbia cercato di ridurre o emendare l’incremento degli aiuti a Israele, voluto soprattutto dal congresso. E ciò in una fase in cui l’evoluzione della politica estera egiziana è molto incerta, mentre la cooperazione saudita continua ad essere preziosa. In sostanza, rispetto ai quattro pilastri dell’architettura americana, Washington ha deciso per ora di favorire quello che si ostina a non cooperare, cioè Israele.