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Steve Jobs: bellezza e follia

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Ci sono i fanatici e ci sono gli scettici. Ci sono quelli che da giorni piangono il genio visionario di Steve Jobs, quasi fosse un padre, un fratello, un amico, e accendono lumini a forma di mela alimentando la leggenda dell’hippy buddista zen; e ci sono quelli che protestano, come lo scrittore Jonathan Franzen, contro l’impostura universale del genio luciferino del marketing, criticando i profitti esorbitanti e i milioni di gadgets di un inventore geniale quanto si vuole, ma che ha finito per drogare i consumi dell’intero pianeta. Eppure, c’è una cosa che gli uni e gli altri non possono negare, ed è la straordinaria caparbietà di cui Steve Jobs ha dato prova quando ha voluto rimettere il gusto del bello e della bellezza al centro di un progetto tecnologico rivoluzionario. E non è un dettaglio da poco in un’epoca come la nostra, dove l’estetica ha perso ogni potere, caduta com’è in balia dell’autarchia, per il predominio assoluto della libertà individuale e per le infinite derive patologiche del gusto che questa libertà comporta. Non è poco aver ridato un ruolo di primo piano al senso del bello e alla bellezza, ora in nome dell’ironia, ora in nome della provocazione, ora in nome della rivolta.

Questi aspetti costituiscono in fondo l’essenza molto eccentrica dell’eredità di Steve Jobs, e sono anche quelli che spiegano la forza irrazionale del suo carisma e l’estensione planetaria del suo successo – insieme con l’autorità tentacolare, il gusto molto egocentrico, delirante, quasi insano del comando assoluto, ai limiti della tirannia.

Steve Jobs non era solo un leader dittatoriale che spremeva fino all’ultimo sangue i suoi collaboratori, mandandoli spesso e volentieri a ricominciare daccapo un lavoro sul quale avevano speso intere nottate. “Cercate di esporvi alle cose più belle che abbia inventato l’umanità e poi cercate di portarne il bello dentro ciò che fate”. Era questa per lui la vera filosofia di un grande prodotto innovativo: il trionfo del gusto, che dalla notte dei tempi significa semplicità ed eleganza. Si capisce dunque come mai fosse un maniaco dei dettagli, un perfezionista ossessivo, un control freak, come dicono gli americani, uno che non lasciava nulla al caso.

La storia dei corsi di calligrafia è nota. Studente universitario mancato, dopo i primi sei mesi al Reed College di Portland, nello Stato dell’Oregon, si mise in testa di seguire un corso di calligrafia, specialità accademica locale. Fu lì che imparò la varietà, la bellezza e lo splendore delle centinaia di caratteri tipografici, i loro accordo, secondo i gradi, il corpo e la distanza, la loro gerarchia. Tutte cose completamente inutili e gratuite, come inutile e gratuita è l’arte del bello, se non fosse però che qualche anno dopo si sarebbero rivelate un dettaglio essenziale, quando Jobs concepì la nuova interfaccia grafica del Macintosh che avrebbe cambiato la grammatica di accesso al mondo digitale. Non solo la calligrafia, ma anche il design era la sua ossessione. I biografi raccontano che da giovane passasse interi pomeriggi nel reparto cucine di Macy’s, la catena dei grandi magazzini, per studiare da vicino ogni dettaglio di mobili, utensili, strumenti di lavoro. Raccontano pure che con la moglie Laurene passasse mesi interi prima di procedere all’acquisto di una lavatrice, tanta era l’ossessione maniacale dell’analisi comparativa tra prezzo, performance e struttura dell’elettrodomestico. Ed è noto come i suoi amici si stupissero di arrivare a casa sua e di trovarla assolutamente vuota, priva di mobili, del tutto sguarnita di tavoli, tavolinetti, divani, scrivanie. Motivo? La ricerca inesauribile del mobile bello, dell’oggetto di gusto da avere quotidianamente sotto gli occhi.

Steve Jobs era un pazzo: non nel senso dello scriteriato, fuori dalla realtà, immerso in un mondo inaccessibile e tutto suo; ma nel senso del fool, di quello che apparentemente si astrae dall’essenziale, per pensare a un’altra cosa, perché incuriosito da un dettaglio laterale, da una domanda impertinente che fa crollare l’autorità dell’interlocutore. Steve Jobs era uno che aveva sempre in mente un’altra cosa, la moltiplicazione di un risultato, la sua applicazione infinita, il potenziale commerciale di un’ultima trovata elettronica. Ma era soprattutto un artista, un californiano borderline, cresciuto nella controcultura degli anni Settanta, uno che avrebbe ammesso il potenziale sconvolgente, in termini di associazioni mentali, di una presa di LSD. E che per nulla al mondo avrebbe trascurato la ricompensa di quell’Invitation au voyage, promessa da un poeta come Charles Baudelaire: “ordre, beauté, luxe, calme et volupté”.