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Se la Catalogna vuole entrare nell’Unione Europea

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L’undici settembre è – anche – il giorno della festa ufficiale della Generalitat della Catalogna. Curiosamente, è la ricorrenza di una sconfitta: si commemora la perdita dell’autogoverno catalano-aragonese avvenuta nel 1714. Un tempo simbolo della libertà da riconquistare, quella data acquisì col ritorno alla democrazia uno status ufficiale, perdendo poi ogni significato rivendicativo. Una valenza ristabilita clamorosamente proprio quest’anno, quando un milione di persone hanno sfilato per le strade barcellonesi dietro il lemma Catalogna, uno Stato d’Europa, guidati dai principali esponenti del partito al governo della regione, Convergència i Unió (CiU).

È stata la più grande manifestazione indipendentista della storia spagnola, e uno dei fatti politici più rilevanti del trentennio democratico iberico. Mai prima d’ora le parole d’ordine secessioniste avevano raccolto così tanto consenso, costringendo l’intero paese ad interrogarsi sulla tenuta del proprio assetto costituzionale. Analisti di vario orientamento considerano che l’evento abbia rappresentato uno spartiacque: nulla può essere più come prima nelle relazioni fra la Catalogna e il resto della Spagna.

La volontà di avere uno stato proprio non aveva mai goduto di particolare fortuna nella politica catalana. La principale forza nazionalista, la federazione Convergència i Unió (al governo della regione per 25 anni su 32), ha sempre difeso la soluzione autonomista all’interno dello stato spagnolo, esercitando un ruolo fondamentale nella scena politica di Madrid. Fin dai tempi della stesura della Costituzione (1977-78), a differenza dei nazionalisti baschi, il primo partito catalano è stato artefice di accordi con i partiti di ambito nazionale, avendo di mira la massimizzazione dei benefici per la propria regione in cambio del sostegno agli esecutivi centrali.

Ora lo scenario è mutato, e l’esplicito sostegno di CiU alla manifestazione dell’undici settembre evidenzia che le posizioni ufficiali del nazionalismo catalano moderato hanno raggiunto (o quasi) quelle  dell’indipendentismo più radicale di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), partito minoritario e tradizionalmente sostenitore della separazione da Madrid. A meno che non si voglia ritenere che la svolta indipendentista di CiU sia una mossa puramente tattica: sarebbe cioè finalizzata ad alzare la posta nel difficile contenzioso con il governo centrale di Mariano Rajoy intorno al nuovo regime fiscale che la Catalogna vorrebbe. Eventualità non del tutto infondata. Comunque sia, è un fatto che la rivendicazione separatista per CiU rappresenta un salto, una cesura ideologica netta.

Negli ultimi anni il sentimento indipendentista è cresciuto nella società catalana. La stessa marcia dell’undici settembre, lungi dall’essere un moto spontaneo paragonabile al movimento degli indignados, è frutto di un lungo lavoro condotto da numerosi gruppi della società civile, oggi riuniti nella Asamblea nacional de Catalunya. Il successo si deve anche al crescente radicamento territoriale di queste realtà di base, organizzatrici negli anni scorsi di varie “consultazioni popolari” per l’indipendenza, svoltesi in molte città catalane.

L’affermarsi di tali posizioni è dovuto a due elementi fondamentali. Il primo (in ordine puramente cronologico) è il fallimento del processo di revisione dello Statuto di autonomia. La nuova “legge fondamentale” della Catalogna è stata approvata dal parlamento locale nel 2003, votata (con alcune modifiche) dal parlamento nazionale e suffragata da un referendum locale nel 2006. Il Partido Popular (PP) dell’attuale premier, che la considerava eccessivamente autonomista, ricorse però alla Corte costituzionale contro la sua entrata in vigore. La sentenza, giunta nel 2010 – pur mantenendo un buon numero di articoli – ha ridimensionato la portata del testo e soprattutto ha censurato l’autodefinizione della Catalogna come “nazione”. Una decisione che ha provocato a suo tempo un’enorme manifestazione di protesta a Barcellona, promossa da tutti i partiti della regione con l’esclusione dei popolari. Da quel momento, ha cominciato a diffondersi la tesi dell’impossibile “incastro” delle aspirazioni “nazionali” catalane all’interno dell’assetto attuale della Spagna, incapace di configurarsi come stato plurinazionale.

Il secondo elemento che spiega la crescita dell’indipendentismo è l’acuirsi della crisi economica. I gruppi dirigenti catalani sono riusciti nella loro strategia di auto-vittimizzazione, presentando la drammatica situazione dei conti pubblici della regione come conseguenza di un’ingiusta distribuzione delle risorse all’interno della Spagna. La Catalogna sarebbe un “paese virtuoso” se Madrid non si appropriasse delle tasse dei catalani, restituendone poi solo una parte. Questa almeno è la tesi di CiU, che alle elezioni regionali di due anni fa ha raccolto oltre il 38% dei voti. Un punto di vista che riscuote consenso fra gli indipendentisti “per convenienza”: quelli che non vogliono staccarsi dal resto della Spagna per ragioni ideologiche, ma per calcolo economico.

Due cause fondamentali dell’auge del secessionismo, insomma, che alimentano le schiere di due idealtipi di catalano separatista: quello per sentimento (o ideologia) e quello per calcolo. In entrambe le posizioni è del tutto assente un rifiuto dell’Europa: al contrario, l’UE è vista come lo spazio naturale in cui possano esaudirsi le aspirazioni al riconoscimento del nuovo stato. Si è lontani, dunque, da posizioni di etno-populismo anti-europeo, proprie di altri movimenti nazionalisti del vecchio continente. Nelle retoriche dei gruppi dirigenti catalani, a cominciare dal presidente della Generalitat Artur Mas (CiU), il responsabile dei tagli che si è costretti ad operare non è mai Bruxelles, ma sempre Madrid.

Naturalmente, vi sono anche settori sociali contrari all’indipendentismo, che forse rappresentano ancora la “maggioranza silenziosa” dei cittadini della regione. Buona parte del mondo delle imprese, ad esempio, ha il timore di perdere l’accesso al mercato iberico nel caso in cui il paese dovesse rompersi. Le ditte catalane vendono nel resto della Spagna circa la metà dei loro prodotti e molte grandi società hanno un raggio di mercato ben al di là dei confini regionali, a cominciare dalla banca barcellonese la Caixa, leader nazionale dei servizi finanziari.

La situazione del governo centrale, già in seria difficoltà per le conseguenze della crisi, è molto complicata da questo nuovo fronte “interno”. Rajoy deve scegliere se andare incontro alle richieste nazionaliste più “moderate”, ridisegnando le relazioni fiscali fra lo stato centrale e la Generalitat catalana, oppure se contrastare a viso aperto e su tutta la linea il disegno di CiU. A spingere verso la prima scelta sono proprio i settori economici di cui sopra, interessati ad un clima di serenità che aiuti i loro affari. A spingere in direzione contraria, invece, sono parti significative dello stesso PP, quelle collocate più a destra, che trovano molto spazio nelle principali testate conservatrici del paese, come El Mundo, Abc e la Razón.

Rajoy non può permettersi di sbagliare per non sprecare le sue ultime riserve di credibilità.. È di fronte a un dilemma: provare a riconquistare consenso innalzando la bandiera dell’unità della Spagna, e magari della solidarietà contro gli egoismi delle regioni ricche, oppure cedere ad alcune richieste di CiU per salvare la stabilità politica. I margini sono stretti, ma ci sono: in fondo, populares al governo a Madrid e nazionalisti al governo a Barcellona condividono la stessa filosofia economica neoliberale. E proprio questo potrebbe essere il terreno su cui cercare un’intesa che soddisfi entrambi – e che non dispiaccia nemmeno a Bruxelles.