Non saranno i Paesi Bassi il primo paese, tra quelli aderenti alla moneta unica, ad essere governato da forze politiche apertamente euroscettiche. Le elezioni olandesi hanno confermato l’esistenza di una frattura politica sempre più evidente nei sistemi politici del continente, trasversale alla distinzione tra destra e sinistra: quella tra i partiti contrari o favorevoli alle attuali condizioni dell’integrazione europea. Sarà una coalizione composta da questi ultimi a insediarsi al governo dell’Aia; tuttavia, le parziali differenze di vedute tra i due partiti vincitori sono destinate a pesare.
L’appuntamento elettorale è stato un sorprendente trionfo per le forze più moderate – i sondaggi, fino a poche settimane prima, delineavano tutt’altro scenario. I liberali del primo ministro uscente Mark Rutte ottengono il risultato migliore della loro storia: il 26,6% dei voti (+6% rispetto alle elezioni del 2010) e 41 seggi su 150. E consolidano la loro supremazia sulle altre componenti del centrodestra: i cristiano-democratici, un tempo forza maggioritaria, sono ridotti a un quarto della forza politica dei liberali. Ma è soprattutto il Partito della Libertà di Geert Wilders – la formazione di estrema destra duramente critica in passato con l’immigrazione islamica e oggi nei confronti di Bruxelles – a subire una grave sconfitta. Wilders aveva tolto il suo appoggio esterno al precedente governo rifiutandosi di approvarne il piano di austerità, provocando così le elezioni anticipate: oggi, perde il voto di un terzo degli elettori che lo avevano scelto due anni fa.
Dall’altra parte, i laburisti ottengono una netta affermazione: la formazione guidata da Diederik Samsom, con il 24,7% dei voti (+5%) e 38 seggi vince il derby a sinistra con il Partito Socialista (SP). L’SP, che in precedenza era poco più di un gruppuscolo, diede il suo definitivo addio al marxismo-leninismo nel 1991: da quel momento riuscì a trasformarsi nel partito leader della sinistra radicale. Alfiere di battaglie anti-NATO e anti-UE – specie in occasione del referendum sulla “costituzione europea” del 2005, che fu bocciata dagli olandesi – il Partito Socialista raccolse a metà anni duemila il suo miglior risultato, il 16,6%. Anche questa volta una forte denuncia delle politiche di Bruxelles ha accompagnato la sua campagna elettorale: un cartone animato autoprodotto descrive l’UE come culla del neoliberismo sfrenato, sfuggente alle regolazioni nazionali, e paradiso per i “pirati del capitale”. Nonostante le aspettative, il responso delle urne è stato però molto deludente: con il 9,6%, l’SP resta la quarta forza, di poco alle spalle del partito di Wilders.
Proprio il periodo della campagna si è rivelato decisivo per la vittoria finale dei liberali e dei laburisti. Da un lato, l’elettorato ha deciso di riconfermare la propria fiducia a Rutte, di fronte al comportamento ambiguo di Wilders: il leader dell’estrema destra paga il suo sostegno al governo per l’incapacità di incidere sulle politiche nazionali (davvero magri i risultati rispetto ai proclami iniziali), ma paradossalmente sconta anche la decisione di farlo cadere, portando il paese alle quarte elezioni anticipate consecutive.
In un dibattito centrato sui temi europei, la sua proposta di uscire dalla moneta unica e dall’UE non ha convinto un’opinione pubblica sì contraria a ulteriori cessioni di sovranità, ma non disposta a rinunciare alle attuali condizioni di integrazione. Le associazioni imprenditoriali di grandi e piccole aziende hanno scelto di sostenere il fronte pro-europeo anche con azioni simboliche, come l’esposizione di striscioni sulle proprie sedi (“vota per l’Europa, vota per il tuo lavoro”), e la pubblicazione di un manifesto che spiegava come l’economia olandese avrebbe perso 90 miliardi l’anno, se fosse uscita dall’Unione. In effetti i dati parlano chiaro: i Paesi Bassi sono il quinto esportatore del mondo, e circa il 70% delle merci che escono dai confini viene venduto all’interno dell’UE.
Curiosamente, un passato nel mondo degli affari accomuna i due vincitori del voto, entrambi poco più che quarantenni. Rutte si è occupato di gestione delle risorse umane e riorganizzazione aziendale in un colosso della produzione di beni ad alto consumo come Unilever. Samsom è invece stato amministratore delegato di una piccola azienda delle energie rinnovabili (oltre che volontario per anni in Greenpeace): il suo profilo dinamico e brillante, emerso appieno nei dibattiti televisivi, è stato uno dei fattori decisivi della rimonta dei laburisti sui socialisti.
Le biografie dei due leader sottolineano l’esistenza di un’ulteriore nuova frattura trasversale, tra le forze politiche europee: quella tra la tecnocrazia e il populismo. Una frattura già emersa altrove, anche se con aspetti legati alle caratteristiche nazionali dei sistemi, nelle dinamiche politiche e nei recenti appuntamenti elettorali del continente. La fine dei partiti di massa e i cambiamenti sociali e demografici avevano originato lo sviluppo, a destra, di movimenti politici variamente nazionalisti e xenofobi. Le crisi e la conseguente crescente sfiducia nel capitalismo, nelle classi politiche tradizionali e nell’UE ha provocato l’estensione di questo fenomeno anche a sinistra e in aree “indipendenti” dello spettro politico, alimentando nuove forze “antisistema”. Parallelamente, partiti più allineati allo status quo politico-economico, o a una sua riforma graduale, hanno privilegiato il ricorso a “tecnocrati” capaci di garantire maggiore legittimità presso un elettorato perplesso, sfiduciato e disorientato.
I programmi e i linguaggi del Partito della Libertà e del Partito Socialista olandese spesso ricalcano quelli scelti, ad esempio, rispettivamente dal Front National e dal Front de Gauche nella campagna elettorale francese di pochi mesi fa – ma riflettono anche orientamenti evidenti in molti altri paesi europei. Così come la tendenza alla tecnocratizzazione dei grandi partiti risalta in particolare negli stati dell’area mediterranea – ma anche dalle scelte compiute nei paesi dove i sistemi politici attuali sembrano più solidi e in grado di autoconservarsi.
In ogni caso, il voto olandese rappresenta una secca sconfitta per il fronte populista ed euroscettico (una sconfitta che in Francia e in Grecia non era stata così netta), capace di travalicare la frattura tradizionale tra destra e sinistra. Dunque, la prossima formazione di una coalizione di governo liberale-laburista (e cristiano-democratica, altrimenti la maggioranza dei seggi non sarà raggiunta) è salutata con grande soddisfazione a Berlino, Parigi e nelle piazze borsistiche dell’eurozona. Allo stesso tempo, la Gran Bretagna vede svanire un potenziale elemento di instabilità all’interno della moneta unica, e dato lo stabile isolamento della propria posizione rigidamente contraria agli accordi raggiunti negli ultimi mesi a Bruxelles, dovrà probabilmente rivedere la sua politica europea.
In realtà, le visioni dei due leader vincitori nel voto olandese non sono così coincidenti, e il compromesso necessario per accordarsi sulle difficili scelte economiche che anche i ricchi Paesi Bassi devono compiere non sarà facile da raggiungere. Mark Rutte è contrario all’unione politica, a ulteriori trasferimenti di competenze all’UE e a ulteriori spese per i paesi in difficoltà (“non un euro di più alla Grecia”, ha dichiarato in campagna elettorale, accompagnato dall’ex ministro delle finanze che accusava i paesi indebitati di mancanza di disciplina). Al contrario, per Diederik Samson “salvare la Grecia è salvare l’Europa”; la strategia economica dell’UE va rilanciata, secondo lui, attraverso un grande piano di stimolo.
Dunque, posizioni che oscillano simbolicamente tra il “rigore” di Angela Merkel e la “crescita” di François Hollande. Saranno probabilmente le elezioni tedesche, da tenersi tra dodici mesi, a decidere dove si fermerà il pendolo della politica europea.