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Russia: i limiti dell’opportunismo in politica estera

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La diplomazia russa sembra aver raggiunto alcuni importanti successi nei mesi scorsi, rendendo plausibile perfino l’ipotesi di un aumento complessivo del suo peso internazionale dopo anni di relativo declino. In realtà, Mosca ha colto alcune occasioni soprattutto in Medio Oriente e certamente conserva un potere di veto in vari contesti multilaterali, ma i limiti sono altrettanto evidenti: la Russia ha scarsa capacità propositiva sul piano internazionale, fatica a recuperare posizioni nel suo grande vicinato ex-sovietico, continua a dipendere troppo dalle proprie risorse naturali e non ha neppure iniziato a riformare un sistema politico ed economico vecchio e poco dinamico. Questi limiti emergono perfino guardando ai singoli episodi di apparente successo sul piano internazionale, che devono considerarsi essenzialmente casi di opportunismo politico più che di abile strategia.

Sulla questione siriana, Mosca ha esercitato un’influenza significativa in virtù dei suoi legami militari e di intelligence con il regime di Assad, oltre che del potere di veto in sede ONU, ma rischia di scommettere sul cavallo perdente. A medio e lungo termine, la Siria, collocata in un’area nevralgica del Medio Oriente dovrà assumere un assetto diverso da quello attuale, perché la leadership incontrastata degli alawiti (la minoranza che fa capo agli Assad) non sarà più tollerata dall’intera popolazione. La Russia di Putin sta giocando le sue carte finché può, ma le dinamiche locali sono fuori dal suo controllo.

L’accordo dello scorso settembre sulla neutralizzazione dell’arsenale chimico del regime è stato un indubbio successo tattico per Mosca, che è sembrato offrire l’unica via d’uscita possibile al presidente Obama – quasi costretto dalla sua stessa retorica a un intervento militare rischioso e non risolutivo. In pratica, però, l’obiettivo primario di Washington non era affatto l’uso della forza né l’eliminazione di Assad, bensì il contenimento del conflitto e la sopravvivenza di una qualche opposizione anche militare al regime: in tal senso, l’accordo è stato utile e la mediazione russa è stata un “sacrificio” accettabile. Il destino di Damasco resta comunque nelle mani di una complicata costellazione regionale di forze.

La questione nucleare iraniana è un altro dossier su cui il presidente Putin ha esercitato un’influenza costante, frenando in ripetute occasioni rispetto all’inasprimento ulteriore della pressione diplomatica e rendendo le sanzioni meno efficaci in quanto non applicate da tutti – posizione condivisa dalla Cina. L’attuale fase di intensificazione del dialogo con Teheran, a seguito di un primo accordo-quadro, va nella direzione apparentemente auspicata da Mosca; in realtà le cose potrebbero stare in modo assai diverso, poiché Obama ha stabilito un canale diretto di comunicazione con la leadership iraniana (potendo dunque fare a meno di mediatori o facilitatori) e punta con qualche probabilità di successo a cambiare gli equilibri regionali. Una delle conseguenze possibili di questo riassetto è l’indebolimento dell’asse Teheran-Damasco, che nuovamente non favorisce gli interessi russi.

Se guardiamo poi alla vicenda dell’Ucraina, tuttora aperta tra spinte filo-russe e ipotesi di graduale integrazione con l’UE, anche questa conferma in effetti i limiti dell’influenza di Mosca. Perfino le grandi pressioni dirette che la Russia sta esercitando sul paese di gran lunga più importante dell’ex impero sovietico non bastano a determinare l’esito di una complessa e pluridecennale evoluzione politica. È inevitabile e naturale che il rapporto Kiev-Mosca rimanga decisivo per il futuro di entrambi, ma non è una partita soltanto bilaterale. I condizionamenti esterni arrivano soprattutto sotto forma di mobilitazione popolare di parte dell’opinione pubblica ucraina – il che non è certo un fatto nuovo ma deve necessariamente preoccupare Putin per varie ragioni anche interne.

In ultima analisi, l’attivismo di Mosca su alcuni dossier internazionali va valutato nel contesto degli interessi prioritari russi: il controllo della sua periferia centro-asiatica, l’aggancio funzionale alle economie europee, la gestione del gigante e vicino cinese nel complicato quadro dell’Asia orientale. Su tutti questi versanti, i successi sono superficiali e i problemi molto profondi, soprattutto in proiezione futura.

C’è poi la situazione interna alle Federazione Russa, che presenta molte e ben note debolezze strutturali. Il paese è tuttora in declino tendenziale o al più in sostanziale stagnazione – alla luce dei dati economici, demografici, e degli indici compositi del benessere e delle libertà civiche – e non si vedono segnali di un’inversione di rotta.

L’opportunismo diplomatico di Mosca potrà ancora ottenere risultati significativi in alcune congiunture particolari, ma la loro natura sarà effimera senza un approccio più costruttivo che combini diverse componenti: gli interessi economici, le questioni di sicurezza e prestigio, una “visione” per il rinnovamento interno.

In ultima analisi, la leadership di Vladimir Putin (tuttora senza un ricambio naturale, anche dopo la strana staffetta alla presidenza con Dmitry Medvedev) è diventata uno strumento di pura conservazione; perfino il Partito Comunista Cinese ha fatto di meglio, trovando il modo in questi anni di rinnovare una notevole porzione del proprio establishment.