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L’Ucraina tra Europa e Russia

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C’è un luogo nel nostro continente in cui i cittadini manifestano sventolando bandiere dell’Unione Europea, chiedendo a gran voce di potervi entrare, e identificando addirittura Bruxelles con la democrazia. Ciò accade in Ucraina, un paese tagliato in due da una divisione politica che appare quanto mai invalicabile. La parte più filo-occidentale ha duramente contestato la scelta, da parte della fazione attualmente predominante raccolta attorno al presidente Viktor Yanukovich, di non firmare l’Accordo di Associazione con l’UE.

Bruxelles avrebbe voluto coronare i quattro anni di trattative con Kiev al summit del partenariato orientale tenuto a Vilnius il 28 novembre, sotto la presidenza di turno lituana: non solo l’Ucraina, ma anche Armenia, Georgia e Moldavia avrebbero dovuto siglare accordi di armonizzazione economico-politica con Bruxelles: un passo davvero importante per l’UE. In effetti, solo Georgia e Moldavia si sono presentate all’appuntamento. L’Armenia aveva fatto conoscere la sua rinuncia già in settembre; l’Ucraina, solo una settimana prima.

Il comportamento di Kiev è dipeso da una forte interferenza “diplomatica” russa: Mosca lo ha ovviamente negato, ma il primo ministro ucraino Mykola Azarov ha finito per ammetterlo con naturalezza. D’altronde, Vladimir Putin non ha mancato di chiarire in pubblico che avrebbe considerato l’accordo come un “alto tradimento” nei suoi confronti. Nei mesi scorsi la Russia ha moltiplicato gli “avvertimenti”, concretizzati in stringenti controlli doganali sulle merci ucraine e minacce di riduzione della fornitura di gas in inverno. Tuttavia, i negoziati europei avevano in realtà ben poche speranze di felice conclusione.

La condizione-simbolo posta all’Ucraina per la firma dell’accordo era la scarcerazione di Yulia Tymoshenko, o almeno la sua estradizione in Germania con la promessa di non tornare. Ex primo ministro (2007-10) ed ex pupilla del presidente filo-occidentale Viktor Yushchenko (2005-10), prima ancora era stata tra i leader della rivoluzione arancione, una serie di grandi manifestazioni di piazza in cui una parte della popolazione constestava i risultati delle presidenziali di fine 2004 come irregolari. In quell’occasione, vincitore di misura risultava il filo-russo Yanukovich, ma la corte suprema del paese accoglieva le accuse di brogli provenienti dalla piazza e stabiliva una ripetizione del ballottaggio, che Yushchenko vinceva mantenendo la presidenza per cinque anni.

Yanukovich avrebbe avuto la sua rivincita solo nel 2010, battendo appunto Yulia Tymoshenko, nel frattempo divenuta una vera celebrità a livello internazionale. L’anno successivo, la leader sconfitta – ma evidentemente ancora ingombrante – veniva processata, poi arrestata durante il processo e infine rapidamente condannata a sette anni di carcere con l’accusa di aver venduto forniture di gas nazionale all’azienda russa Gazprom a un prezzo troppo basso e senza l’approvazione del governo.

Lo stesso sodalizio Yushchenko-Tymoshenko si ruppe poi nel 2009, quando quest’ultima si sbarazzò del suo ex-protettore politico riuscendo a proporsi come candidata unitaria di tutto il blocco filo-occidentale. Attorno ai tre protagonisti ruota dunque tutta la vita politica ucraina. L’arresto di Yulia Tymoshenko è stato un atto politico, a prescindere dall‘eventuale veridicità delle accuse (principalmete abuso d’ufficio) – non serviva la sentenza (aprile 2013) della Corte europea per i diritti dell’uomo per scoprire che la sua detenzione è stata “illegittima e arbitraria”.

Il suo ritorno in libertà sarebbe una concreta minaccia per chi oggi controlla il potere. A disputarselo, dai tempi del distacco dall’URSS, vi sono due forze che rappresentano non solo due differenti gruppi socio-economici, ma anche due diverse concezioni della politica estera e due blocchi demografici più o meno equivalenti, che poi si riproducono in occasione delle elezioni. Uno è quello russo o russofono, dominante nelle aree sud-orientali del paese, storicamente alimentato dal tentativo sovietico di diluire la prevalente nazionalità ucraina, favorendo il trasferimento in quelle terre di persone provenienti da altre aree della Russia. L’altro è quello legato alla tradizione storica e culturale locale, e per reazione rivolto verso occidente.

Yulia Tymoshenko non era infatti solo il capo dell’opposizione, o la campionessa del nazionalismo ucraino, ma anche (e soprattutto) il punto di riferimento di tutta una serie di potentati, rivali di quelli facenti capo a Yanukovich. Negli anni precedenti era stata capace di appropriarsi di così tante risorse energetiche – circa un quarto di tutte le riserve nazionali erano cadute nelle sue mani durante le privatizzazioni seguite al crollo dell’URSS – da meritarsi il soprannome di “principessa del gas”.

Scarcerare Tymoshenko senza una contropartita adeguata sarebbe stato incoerente per Yanukovich: avrebbe sconfessato integralmente il suo disegno politico, rimettendo in circolazione il suo più pericoloso avversario in vista delle presidenziali del 2015. Il cosiddetto blocco filo-occidentale (in realtà molto più unito, a livello di base politica, dal nazionalismo in chiave antirussa) è oggi costituito da un trio di partiti, uno moderato, uno populista e uno radicale-antisemita, in cui la personalità più in vista è Vitali Klitschko, detto “Pugno di Ferro” per i suoi trascorsi nella boxe.

Al di là dello scarso charme di cui soffre l’idea di integrazione europea, c’era dunque da aspettarsi un insuccesso. Da un lato, il blocco oligarchico ora dominante difficilmente sopravvivrebbe se nel paese si adottassero le regole europee; dall’altro, la possibilità di un vero e proprio ingresso nell’UE, da utilizzare come bonus elettorale per il presidente, è nulla. I membri dell’Unione escludono infatti, per il momento, qualsiasi allargamento a paesi di dimensione tanto grande.

Come se non bastasse, l’accordo non prevedeva prestiti sufficienti (circa 600 milioni) alle necessità del paese, che ha disperato bisogno di liquidità; solo la Russia è in grado di spostare rapidamente ingenti capitali verso il suo vicino meridionale per migliorarne la dotazione industriale e infrastrutturale. Data la situazione dei bilanci pubblici europei, molto scarsa sarebbe la possibilità di convincere le opinioni pubbliche nei paesi dell’UE ad aprire i cordoni della borsa per l’Ucraina.

La rigidità rimproverata alle mosse diplomatiche europee è quindi probabilmente dovuta alla quasi certezza di un rifiuto: anche riguardo alla lista di riforme richieste all’Ucraina, elaborata dal commissario boemo Füle, il governo non ha mosso un dito. Non valeva la pena “cedere” sulla questione democratica e umanitaria rappresentata dalla reclusione di Yulia Tymoshenko, dato che Kiev non avrebbe comunque modificato il suo ‘no’.

Bisogna inoltre precisare che non tutti, nelle capitali dell’Europa occidentale, condividono una contrapposizione diretta nei confronti di Mosca, al contrario auspicata dalla maggiorparte dei membri orientali, e condivisa dai nazionalisti ucraini. Molti governi, a cominciare da Berlino, preferiscono ormai un atteggiamento diplomatico più conciliante. Da questo punto di vista, il sacrificio di un accordo con l’Ucraina, visto col fumo negli occhi dalla Russia, dall’applicazione complicata e dai benefici lontani nel tempo, potrebbe non essere visto così negativamente, nella prospettiva di una generale rimodulazione di tutta la politica di vicinato verso Est, più appropriata all’accresciuto peso economico di Mosca nel continente.

L’Ucraina, al contrario dell’Armenia, non entrerà comunque nello Spazio economico comune centrato sulla Russia, del quale fanno già parte Bielorussia e Kazakhstan. Per quanto riguarda l’avvicinamento all’Unione Europea – e l’ingresso nella NATO, elemento non secondario della partita tra filo-russi e filo-occidentali – nonostante le proteste in corso, se ne riparlerà solo dopo le elezioni del 2015.