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Perché un Medio Oriente de-nuclearizzato è un’utopia

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Lo slogan di un “Medio Oriente privo di armi di distruzione di massa” (chimiche, biologiche o nucleari), rilanciato nel 1995 dalla conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione, risale al 1974, quando su iniziativa di Anwar El Sadat e dello Shah di Persia, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite formulò questa proposta. L’iniziativa non venne raccolta dagli altri paesi del Medio Oriente ed è rimasta uno slogan, nonostante il teorico sostegno di cui gode da parte della comunità internazionale.

Cosa si intende per un Medio Oriente denuclearizzato? Un trattato di disarmo nucleare generalizzato dovrebbe impegnare i paesi contraenti a non possedere, acquisire, testare, costruire o utilizzare alcuna arma nucleare, biologica o chimica, come previsto dal testo di Revisione del Trattato nel 1995. La sottoscrizione di un tale trattato dovrebbe includere anche meccanismi di reciproco monitoraggio e controllo degli arsenali di armi convenzionali e non convenzionali già in possesso di tali paesi, inclusi i missili balistici di portata superiore ai 150km.

Una conferenza regionale con questo obiettivo si dovrebbe tenere nel dicembre 2012 in Finlandia, ma non è ancora chiaro quali paesi vi parteciperanno e di conseguenza quale sarà la portata complessiva dell’iniziativa. Ad oggi, è probabile che Israele non sarà presente nemmeno come osservatore, mentre l’Iran ha dichiarato che  le sedi prioritarie per i negoziati già in corso che lo riguardano direttamente restano  IAEA e NPT.

C’è in realtà un problema di fondo: è difficile parlare di disarmo nucleare multilaterale in un quadro regionale complicato e polarizzato come il Medio Oriente. A questo si aggiunge che molti nei paesi arabi sospettano che il rinnovato interesse occidentale per un Medio Oriente de-nuclearizzato sia legato soltanto alla minaccia nucleare iraniana – e dunque agli interessi di Israele. Molti paesi della regione – inclusa la Turchia – ritengono che i detentori del nucleare –-  tra cui appunto Israele –  abbiano l’obiettivo di non far entrare nuovi paesi “nel club nucleare” e continuare a detenere il proprio oligopolio.

In questa fase di generale instabilità, aggravata dalle ripercussioni delle “transizioni” in parte del mondo arabo, vi sono tensioni latenti – ma intense – tra due protagonisti del quadro regionale: l’Arabia Saudita e l’Iran. In particolare, preoccupano le voci che vogliono il regno saudita impegnato a sviluppare un piano di armamento nucleare indipendentemente dall’alleato americano, in cooperazione con il Pakistan. Ad avvalorare queste ipotesi c’è un dato storico: dal 1974 l’Arabia Saudita ha devoluto annualmente al Pakistan circa un miliardo di dollari per aumentare il proprio arsenale militare e le proprie testate nucleari.

E l’ostilità saudita nei confronti dell’Iran è di antica data, visto che già in passato il regno wahabita si è prodigato per costruire un’alleanza sunnita in funzione anti-sciita, ad esempio attraverso  gli aiuti forniti a Saddam Hussein durante la guerra Iran-Iraq per ricostruire il reattore nucleare di Osirak, distrutto dagli israeliani. L’aspirazione saudita di dotarsi di armi nucleari preoccupa per due ragioni: la prima è che la casa regnante non sembra considerare le garanzie di sicurezza USA sufficienti in caso di aggressione nucleare iraniana o di superamento iraniano della soglia critica oltre la quale una bomba può essere facilmente prodotta. La seconda ragione di preoccupazione è che l’Arabia Saudita possiede i mezzi per acquistare sul mercato qualsiasi tecnologia militare nucleare in breve tempo; in altre parole, il processo di acquisizione di armi nucleari da parte  saudita potrebbe procedere molto più speditamente e con minori vincoli di quanto sta avvenendo per l’Iran.

È interessante come Israele non si senta minacciato dall’opzione nucleare saudita di per sé, essendo attivi contatti e taciti scambi di intelligence tra i due paesi. A Tel Aviv si è consapevoli però che le transizioni arabe e le recenti sollevazioni popolari potrebbero portare ad un colpo di stato e ad un rovesciamento dei rapporti di potere all’interno del Regno saudita, eventualmente provocando un cambio dei vertici e un “passaggio di mano” degli arsenali nucleari a gruppi terroristici salafiti. 

Israele, inoltre, teme che attirare troppo l’attenzione internazionale sulla questione nucleare, incentrata sul disarmo e affrontata in contesti multilaterali, possa rappresentare un rischio: è chiaro, infatti, che sebbene sempre più paesi della regione siano ostili all’acquisizione dell’arma nucleare da parte iraniana, reclamano il diritto universale a sviluppare reattori nucleari a scopi civili. Due esempi sono lampanti in questo senso: l’Egitto dei Fratelli musulmani e la Turchia di Erdogan. Entrambi vorrebbero affrontare la questione del disarmo nucleare regionale in fora multilaterali, con il chiaro intento di impegnare Israele a uscire allo scoperto e sottoscrivere a sua volta il Trattato di non proliferazione.

In sostanza, senza nemmeno porre la questione dello sviluppo di programmi nucleari civili, la cui costruzione è stata annunciata da quasi tutti i paesi della regione a partire dai prossimi anni e che si moltiplicheranno entro il 2030, il quadro non è certo propizio a grandi piani di disarmo. Gli sforzi in tal senso appaiono oggi velleitari, e hanno spesso obiettivi faziosi, in uno scenario regionale altamente instabile e in cui è molto basso invece il grado di fiducia reciproca nel campo della sicurezza.