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Il premio meritato e il futuro incerto dell’Unione Europea: conversazione con Giuliano Amato

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Come interpretare il premio Nobel per la pace assegnato all’Unione Europea? Giuliano Amato ricorda l’eredità dei padri fondatori dell’integrazione e i meriti storici delle Comunità originarie, a fronte delle difficoltà e dei molti dubbi sull’Unione di oggi.

È rimasto sorpreso dalla notizia del premio Nobel per la pace all’Unione Europea?

Inizialmente sono rimasto sorpreso perché sono indotto a pensare a singoli individui come vincitori del premio Nobel, e non a organizzazioni. È vero però che nella storia del Nobel per la pace sono molte le organizzazioni che sono state insignite, oltre alle persone fisiche. Noto anche una certa erraticità dei criteri adottati dal Comitato, visto che il premio conferito a Barack Obama nel 2008 guardava al contributo che il presidente americano poteva dare in quel momento alla pace, o meglio nel futuro immediato, essendo stato appena eletto. Il contributo alla pace dell’Unione Europea è certamente enorme, e come tale va riconosciuto, ma risale ai decenni trascorsi. Per il presente e il futuro, le decisioni che possono determinare le vicende del nostro mondo non trovano – aimè – l’Unione Europea tra i protagonisti.

Questo premio Nobel indica il riconoscimento di meriti soltanto storici, o anche di una filosofia e di un metodo per costruire le condizioni della pace in modo strutturale e su tempi lunghi?

Entrambe le cose, e sono entrambe giuste. Non solo l’UE, ma anche altre organizzazioni, partono dal presupposto di una connessione stretta tra la pace e la creazione di condizioni preliminari che non sono necessariamente il far tacere le armi, cioè la pace realizzata o ripristinata a conflitto aperto. Si può fare di più oltre ad evitare che le armi abbiano il sopravvento in caso di conflitto potenziale ma imminente. In sostanza penso alla prevenzione dei conflitti, che apre un ventaglio molto largo di interventi modificativi che erodono le radici del conflitto. Evitare dunque che ci siano dispute per l’acqua pulita o l’aria respirabile è un intervento che va fatto oggi affinché tra dieci o cinquant’anni non vi siano conflitti per quelle risorse scarse che portino all’uso delle armi. Da questo punto di vista, la mia anima di giurista fatica talvolta a usare l’espressione “Unione Europea” perché ricordo che naturalmente alla base di questa vi sono le Comunità europee, cioè le progenitrici dell’Unione di oggi: ed è a loro che in effetti dobbiamo la pace. L’Unione nata tra i Trattati di Maastricht e Lisbona è molto giovane, mentre il sogno dei padri fondatori fu realizzato dalle Comunità originarie in base all’ideale che da Kant a Mazzini porta a Ventotene. Quel sogno era lo svuotamento delle sovranità nazionali e la creazione di interessi comuni – si tratti pure di interessi economici – tra gli europei, che prevengono il formarsi delle ragioni del conflitto e la traduzione del possibile conflitto in violenza armata. L’Europa è un modello esemplare di successo nel costruire la pace, dimostrando che si può anche diventare più ricchi grazie all’accesso alle risorse altrui senza doverne acquisire il controllo con la forza, ma creando invece un mercato comune. E dimostrando che si può sostituire l’interesse conflittuale con l’interesse comune: qui le Comunità europee sono state un grandioso fenomeno di pacificazione, a partire dal valore concreto e simbolico insieme della prima di esse, quella del carbone e dell’acciaio.

Il Nobel è quindi più che meritato, ma è arrivato al momento giusto? L’Unione sembra stretta fra l’aspirazione a diventare un “attore” internazionale rispettato su scala globale e quella a perseguire i suoi ideali in modo quasi introverso.

In effetti, avrei dato il Nobel all’UE dieci anni fa. Oggi l’ho vissuto più come un riconoscimento storico, appunto. L’Unione Europea evoca, anche come nomen, il nostro tempo: i “pilastri”, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza con il suo “doppio cappello” nel Consiglio e nella Commissione, e una vita comune molto complicata che a volte va a scapito dell’efficacia dell’azione. Chi vive da vicino la vita dell’Unione percepisce in tutta evidenza il divario tra la lungimiranza di chi fondò le Comunità originarie e (a dir poco) l’impaccio disordinato che caratterizza la gestione dell’Unione di oggi. In tal senso siamo quasi di fronte a un premio alla memoria. È anche vero però che il Nobel ci ricorda che possiamo essere presi sul serio per ciò che abbiamo dimostrato di essere; cerchiamo allora di dimostrarlo una volta di più. Alcune esperienze recenti confermano che è possibile, come la vicenda dei Balcani: al di là delle controversie sul momento iniziale dell’intervento (che fu peraltro della NATO e non europeo), l’impegno degli europei in quella regione è stato un processo di peacebuilding che testimonia una capacità di produrre pace. La ex-Jugoslavia è ancora attraversata da alcuni dei conflitti che portarono alle guerre degli anni Novanta, ma l’UE ha fatto più di altri per mantenere una presenza costruttiva e stabile – come ci ricorda ad esempio la nomenclatura “EULEX”, la missione attiva dal 2008 per la promozione della rule of law in Kosovo. Certo, davanti a molte altre questioni mondiali in cui ci si aspetta di sentire la voce dell’Europa, si deve purtroppo constatare che questa voce non c’è.

L’Europa sembra aver penso il senso di marcia, tra scetticismo dei cittadini e incertezze dei leader. Forse non è un problema di legittimità in senso tecnico, ma certo abbiamo un problema di sostegno popolare per le istituzioni comuni. Qual è la strada possibile, anche alla luce della sorpresa comunque positiva di un premio Nobel?

Penso che addirittura per sopravvivere l’Unione Europea – e in particolare il suo nucleo, cioè l’eurozona – abbiano assolutamente bisogno di integrazione politica. Ma non intendo per “integrazione politica” il fatto di rendere sempre più vincolanti gli obblighi creati dall’attuale congegno intergovernativo; lo considero anzi nefasto. Intendo invece una verticalizzazione del processo di integrazione, verso maggiori poteri per il livello sovranazionale. In questo modo, una volta che l’Unione verrà davvero identificata come un soggetto politico che è anche portatore di pace, allora avremo fatto un passo decisivo. Oggi abbiamo una parziale finzione, come dimostra il fatto stesso che si sita discutendo su chi debba andare a ritirare il premio Nobel. Se l’UE fosse un vero soggetto non vi sarebbero dubbi su chi lo rappresenta. Personalmente, tra le ipotesi che circolano, trovo più convincente l’idea (non mia) che mandiamo a ritirarlo ventisette giovani che abbiano fatto l’Erasmus, cioè rappresentativi di uno dei programmi più belli che l’Europa ha realizzato – e che oggi rischia di non essere più finanziato, tra le tante ripercussioni dell’austerità. Quei giovani dell’Erasmus vivono già l’Europa dentro di sé, e potrebbero essere capaci di riprendere a edificarla, proprio mentre alcuni lavorano per cambiarla in direzioni che, a mio parere, rischiano di distruggerla.