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Perché i BRICs sono più di un acronimo

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Ci sono idee che si diffondono in un battibaleno, grazie al momento storico in cui appaiono. Tra le idee “popolari” che più rapidamente si sono diffuse negli ultimi 15 anni c’è l’acronimo BRIC, “inventato” dall’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill nel novembre del 2001.

Suo obiettivo era raggruppare in un’unica sigla i paesi emergenti con maggiori potenzialità di crescita – ovvero Brasile, Russia, India e Cina – per costruire un’alternativa di sviluppo al capitalismo “occidentale”, che appariva allora sempre meno “ruggente” dopo gli attentati alle Twin Towers del settembre 2001. E’ stata poi una scelta azzeccata farlo con una sigla che nella pronuncia inglese equivale a “mattone” (brick in inglese), il simbolo per eccellenza di qualcosa di nuovo che viene edificato.

Trasformatosi nel 2012 in BRICS con l’ingresso del Sudafrica, l’acronimo non avrebbe avuto tanto successo se i paesi membri non avessero avuto anche interessi concreti da difendere tramite il neonato “club di potenze emergenti”.

In primo luogo si può guardare al fattore russo: dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, la Russia aveva bisogno di un nuovo “contenitore” che le consentisse di recuperare la sua tradizionale influenza in Europa ed Asia: i due continenti di cui è ponte geopolitico “naturale” e che l’avevano vista retrocedere bruscamente dopo la sconfitta nella Guerra Fredda. Storicamente portata ad espandersi per scopi difensivi a causa della “sindrome dell’accerchiamento” – trovandosi ad occidente una Germania di nuovo unita e ad oriente una Cina in pieno boom – e costretta a sciogliere il Patto di Varsavia (l’alter ego della Nato nel Vecchio Continente), tra fine anni ‘80 e inizio ‘90 la Russia deve affrontare altre sfide: vede uscire dalla sua “sfera d’influenza” i paesi baltici e tutto l’est Europa, oltre all’Ucraina, suo tradizionale “granaio” (compresa la Crimea, la cui “indipendenza alla sovietica” era stata concessa da Kruscev nel 1956 per meri scopi interni ed amministrativi).

Sul fronte asiatico nel 2001, appunto la data di nascita dell’acronimo BRIC, si chiarì subito a Mosca come anche in oriente gli interessi geopolitici di Washington – che per bombardare l’Afghanistan ottenne dall’Uzbekistan l’uso dell’ex base aerea sovietica di Karshi Khanabad – divergessero dai suoi. Era quindi importante riavvicinare la Cina dopo essere stata “scavalcata” da Kissinger nel 1973, intrattenendo con i leader di Pechino summit a scadenza annuale proprio grazie al “contenitore” BRICS: l’accesso a un mercato di 2,6 miliardi di indiani e cinesi affamati di materie prime rappresentava un’occasione strategica troppo ghiotta per Vladimir Putin.

Sicuramente Mosca sarebbe stata meno attratta dai BRIC se, dopo la dissoluzione della C.S.I. (Comunità degli Stati Indipendenti) nel 1991, si fosse agganciata all’Unione Europea, magari con un trattato di associazione. La scelta della UE, in sincronia con la NATO, è stata però piuttosto ondivaga, soprattutto per la spinta anti-russa esercitata su Bruxelles dalla Polonia e dai Paesi baltici.

Certo, ci sarebbe voluto notevole coraggio diplomatico per portare a termine un tale avvicinamento, una volta scioltosi il Patto di Varsavia e l’intero sistema sovietico: alcuni sforzi ci sono stati, ad esempio da parte della NATO con il Permanent Joint Council dal 1997 e poi il NATO-Russia Council  dal 2002, ma con pochi risultati tangibili.

Date le obiettive difficoltà di integrare la Russia di Putin nel sistema occidentale (senza stravolgere del tutto la UE o la NATO), era facile prevedere che, appena ripresasi dal collasso economico, Mosca – almeno su Ucraina e Crimea – avrebbe reagito come ha poi fatto di recente. E’ in tale contesto che si deve interpretare anche la sua entusiastica adesione ai BRIC – per rendersene conto basti vedere lo spazio dedicato a questo “club di emergenti” da RT/Tv Novosti, l’agglomerato all news di Putin.

Molti interessi a valorizzare l’alleanza BRIC, soprattutto dopo l’arrivo alla presidenza di Lula nel 2003, li ha avuti anche il Brasile. La nuova strategia economico-commerciale del Paese era ben chiara sin dall’insediamento all’Itamaraty (la Farnesina verde-oro) di Celso Amorim, principale artefice della cooperazione “Sud-Sud” per diminuire l’influenza sino ad allora predominante di Washington in America latina. “Il nostro obiettivo è quello di aprirci a maggiori possibilità economico-commerciali, ma anche diplomatiche”, disse subito Amorim – definito nel 2009 dalla rivista Foreign Policy “il miglior ministro degli Esteri del mondo”.

Tra i 5 paesi BRICS, il player globale più forte è comunque – ça va sans dire – la Cina, il cui PIL lo scorso ha superato quello degli USA. Pechino può benissimo agire da sola, concedendo prestiti e facendo affari ovunque, ma la collaborazione con Brasile e Sudafrica – consolidata grazie a incontri sempre più frequenti tra i rispettivi presidenti e ministri (lo scorso 19 novembre, a Mosca, si sono riunite le autorità fiscali dei paesi BRICS per scambiarsi informazioni su elusione ed evasione) – garantisce al governo cinese notevoli vantaggi in Sudamerica ed Africa.

Assai più problematica è risultata la costruzione di un solido asse Mosca-Pechino, per evidenti ragioni geopolitiche, storiche, e anche demografiche (la spinta cinese sulla Russia asiatica è motivo di preoccupazione a Mosca). In effetti, a parte ricorrenti “minacce” di stringere grandi accordi soprattutto in campo energetico e un certo allineamento sui voti in Consiglio di Sicurezza dell’ONU, i due giganti asiatici sembrano spesso competere più che collaborare.

Quanto all’India, sembra rimasta un po’ in disparte nei grandi giochi diplomatici, concentrandosi soprattutto sulla gestione di una crescita graduale e intanto coltivando migliori rapporti con Washington in chiave di contenimento della Cina.

Il primo strumento concreto per dimostrare che la parola BRICS è qualcosa più di un acronimo è la New Development Bank, lanciata nell’estate del 2015 al sesto vertice di Fortaleza, in Brasile. Con una capitalizzazione da 100 miliardi di dollari, altrettante riserve, e la sede centrale a Shangai, in Cina, questa nuova istituzione finanziaria sarà operativa dal 2016 e si propone come un’alternativa alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale.

Certo è che l’entusiasmo iniziale per i BRICS, visti come un motore per la crescita globale alternativo a quello dell’Occidente – una visione rafforzatasi dopo la crisi del 2008, che ebbe per epicentro gli USA – è scemato da quando la Fed (la Banca centrale statunitense) ha annunciato nell’ottobre 2014 la fine della sua politica monetaria espansiva (acquisto di titoli in cambio di più dollari immessi sul mercato). Il “magic moment” del blocco emergente sembrerebbe insomma passato – o addirittura la breve esperienza dei BRICS potrebbe essersi già chiusa, almeno a leggere la stampa finanziaria specializzata anglosassone, da The Economist al Financial Times.

La Cina, ad esempio, oltre al rallentamento della sua crescita (PIL sotto il 7% nel 2015) si trova oggi di fronte ad un aumento delle rivendicazioni da parte della sua immensa forza lavoro che ha già portato i costi di produzione di Pechino a superare quelli messicani. Il Brasile, descritto come il bengodi sino al 2010 nei rapporti internazionali, nel 2015 sarà in tutta l’America latina il paese che crescerà di meno, anzi calerà in modo brutale, con un Pil negativo di almeno il 3% (fonte FMI). Solo il Venezuela della difficile transizione post-Chávez farà peggio.

Analisi negative potrebbero essere fatte anche per gli altri componenti dei BRICS, eccezion fatta forse per l’India, che ha seguito andamenti meno instabili. In realtà, come erano esagerati gli elogi per tutti gli “emergenti” fino ad un anno fa, oggi sembrano troppe, e parzialmente infondate, le critiche. Va ricordato che le analisi intorno ai BRICS sono state guidate da un vero spirito speculativo – sia nel senso della speculazione finanziaria, sia nel senso delle ipotesi un po’ superficiali ispirate dai trend di breve periodo. Assai probabilmente la realtà, al pari della virtù, sta in mezzo e, per rendersene conto, basta leggere i numeri che seguono.

Nel 1980 le economie di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica rappresentavano il 15% del PIL mondiale, mentre quelle dell’allora G7 contavano invece per oltre il 50% della produzione planetaria. Oggi i due gruppi si equivalgono, contribuendo ognuno al 31% del PIL globale. Nel 2020 (nonostante il recente calo relativo di cui si è detto) il “sorpasso” sarà cosa fatta, con i BRICS che ne garantiranno il 34% ed i paesi membri del G-7 “appena” il 29%. E, anche se in un gesto più che simbolico a fine 2015 Goldman Sachs ha chiuso il suo fondo d’investimento dedicato a questi “fantastici 5”, una cosa è certa: i BRICS sono più di un acronimo.