L’Occidente non è in declino; l’Europa è il maggiore catalizzatore di azione globale; il G8 è un format di vertice molto efficace; la NATO è l’alleanza più importante per gli Stati Uniti; l’Irlanda del Nord è un modello di pace per il Medio Oriente e la Polonia è un esempio di transizione democratica per le rivolte arabe. Il viaggio appena concluso nel vecchio continente è servito a Barack Obama per rilanciare la dimensione atlantica della sua amministrazione, smentendo coloro che finora gli avevano attribuito l’intenzione di guardare soprattutto verso le potenze emergenti, a cominciare da Cina e Russia.
Sulle intenzioni del 44° presidente americano possono esserci pochi dubbi. Le tappe a Dublino, Londra, Deauville e Varsavia hanno segnato nell’arco di sei giorni un forte e costante desiderio di riorientare verso l’Europa la proiezione della politica estera e di sicurezza americana. E come era già avvenuto in occasione dei viaggi in Asia, in Africa e nei paesi musulmani – Egitto, Turchia e Indonesia – Obama ha trasformato la propria identità in un tassello della scelta politica di cui si fa portatore. In Irlanda ha fatto tappa a Moneygall, il villaggio di trecento anime da dove nel 1850 partì l’antenato dei nonni materni del Kansas. Poi ha reso omaggio dal palco davanti al College Green a “determinazione e coraggio” con cui cattolici e protestanti hanno sanato la ferita della guerra civile in Irlanda del Nord “diventando un esempio di risoluzione di lunghi conflitti” – a cominciare da quello israelo-palestinese. A Londra Obama si è immerso nella vita di corte a Buckingham Palace, facendo sfoggio di humor anglosassone, giocando a ping pong con il premier David Cameron e definendosi davanti alla regina Elisabetta II di “identità britannica” – sempre in omaggio ai nonni materni. Si è rivolto alla “ruling class” con il discorso pronunciato nella Westminster Hall teso a rilanciare la leadership globale dell’Occidente in ragione della sua ineguagliabile forza: “Ciò che ci distingue è il fatto di rispettare non solo i diritti degli Stati ma dei singoli cittadini” sin dai tempi della Magna Carta.
A Deuville ha trovato nell’anfitrione francese Nicolas Sarkozy e nel britannico David Cameron due partner decisivi, con cui l’intesa personale è molto stretta, nel varare il piano economico del G8 – 20 miliardi di dollari, destinati a diventare 40 – per le rivolte arabe. Questo impegno conferma il ruolo dell’Occidente a sostegno delle aspirazioni democratiche di ogni popolo auspicato da dal presidente americano nel discorso pronunciato al Dipartimento di Stato poco prima di mettersi in viaggio. E a Varsavia ha ricordato di venire da “Chicago, dove ogni abitante è un pò polacco”, per identificare nella “rivoluzione pacifica di Solidarnosc” contro il comunismo nell’Est il successo da cui i popoli arabi in rivolta contro i dittatori possono prendere esempio per portare a compimento le transizioni democratiche.
La sovrapposizione fra biografia personale, valori anglosassoni e ruolo dell’Europa lascia intendere che a due anni e mezzo dall’insediamento alla Casa Bianca Barack Obama ha maturato una identità più atlantica di quanto finora gli era stato attribuito.
Arrivato alla presidenza con l’intento di proiettare l’America verso l’orizzonte del Pacifico, protagonista nei mesi seguenti della trasformazione del G20 nel maggior foro economico, del “reset” dei rapporti con la Russia e del tentativo ancora incompiuto di trovare nella Cina un partner globale, Obama rivaluta il ruolo dell’Europa in considerazione di quanto sta avvenendo sulla sua scrivania. L’unica guerra tradizionale ancora in corso è in Afghanistan, dove in luglio inizia la transizione dei poteri destinata a terminare nel 2014: il successo di tale processo – ovvero la possibilità di ritirare un consistente numero di soldati americani – è legato all’impegno della NATO nell’addestramento delle forze di Kabul come nella ricostruzione civile. In Libia la possibilità di allontanare Muammar Gheddafi dal potere si deve alle operazioni aeree della NATO, che hanno consentito al Pentagono di ritirarsi da un ruolo attivo nel conflitto dopo avergli dato inizio per “proteggere i civili”, come richiesto dalla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite. Nell’applicazione delle sanzioni alla Siria per farle cessare la repressione, e all’Iran per spingerlo a bloccare il programma nucleare, gli alleati su cui Washington può contare sono gli europei. In Medio Oriente le nazioni che più sostengono Obama nel tentativo di far ripartire il negoziato israelo-palestinese da “confini” e “sicurezza” sono Francia e Gran Bretagna – con cui condivide tanto l’opposizione al progetto di Abu Mazen di far dichiarare l’indipendenza della Palestina all’Assemblea Generale dell’ONU in settembre quanto il bisogno di congelare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E sul fronte dell’economia, che per il presidente resta prioritario, la maggiore minaccia alla debole ripresa americana viene dallo scenario di un collasso di Eurolandia innescato dal possibile default greco, con la conseguente necessità di muoversi assieme a Germania, Francia e Gran Bretagna per scongiurarlo.
Sono questi motivi che hanno tenuto banco nelle riunioni preparatorie del viaggio europeo alla Casa Bianca, durante le quali il confronto fra lo speechwriter Ben Rhodes, il consigliere del Dipartimento di Stato Philip Gordon e Liz Sherwood, titolare dell’Europa nel consiglio di sicurezza nazionale, hanno partorito la definizione dell’Europa come “maggiore catalizzatore dell’azione globale”. Ovvero il più importante alleato di Washington; ciò in attesa che il “reset” russo superi del tutto l’ostacolo della difesa antimissile, che le aperture alla Cina producano risultati concreti e che la partnership con le economie emergenti consentano di centrare almeno grande accordo, magari sul clima. A riassumere l’approccio di Obama all’Europa è proprio Rhodes, che cura i testi sui temi strategici, spiegando come “il presidente vuole chiudere tutte le crisi aperte, per poi guardare al futuro”. E per chiudere le crisi aperte serve l’Europa, mentre la proiezione verso il Pacifico punta a gettare le basi di quanto potrà avvenire dopo.
A puntellare tale approccio vi sono ragioni non indifferenti di politica domestica perché le presidenziali incombono nel 2012. Sebbene al momento Obama appaia imbattibile, forte di un consenso al 60% registrato sulla scia dell’eliminazione di Osama bin Laden, i suoi guru elettorali, a cominciare da David Plouffe che lo ha seguito in Europa, si preparano ad una campagna dura, quale che sia il nome del rivale repubblicano. Il motivo è la disoccupazione a livelli alti – oscilla attorno al 9% – che flagella i consumi del ceto medio e fomenta lo scontento sociale. Le elezioni di midterm del novembre scorso hanno attestato che il tallone d’Achille dei democratici è in particolare il ceto medio bianco del Midwest e del Sud: due grandi sacche di povertà in aumento in aree geografiche abitate da milioni di famiglie originarie da Irlanda e Polonia, ovvero la prima e ultima tappa del tour europeo dell’Air Force One.