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Nucleare: cambia il dual use ma non ancora la grande rincorsa

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Il dopo-Fukushima è caratterizzato da una sostanziale continuità nelle strategie sul nucleare civile dei grandi paesi, come Cina e India, che sono maggiormente impegnati nella costruzione di nuovi impianti, e delle maggiori imprese del settore – da Areva a Toshiba.

A ciò si affianca però una novità di rilievo a livello mondiale: a seguito del disastro giapponese ha assunto rilevanza cruciale la questione della sicurezza delle centrali, fino ad oggi oscurata dal pericolo dell’uso militare della tecnologia civile. Quest’ultimo pericolo resta certamente, ed è concentrato soprattutto in Asia, dove restano aperte le tre principali crisi indotte dalla proliferazione degli armamenti nucleari: Iran, India-Pakistan e Corea del Nord. Tuttavia, il complesso rapporto tra civile e militare sta cambiando.

Al G8 di Deauville è stata evidenziata la necessità di migliorare gli standard internazionali di sicurezza. Nella dichiarazione finale si parla di un “incessante bisogno di fare nuove valutazioni della sicurezza”. Intanto, l’Agenzia internazionale dell’Energia atomica (AIEA) ha rispolverato la vecchia convenzione sulle misure di sicurezza del 1996, che però non impone controlli vincolanti, ed ha convocato una conferenza ministeriale per fine mese allo scopo di escogitare nuove formule che concilino controllo internazionale e sovranità nazionale (oltre a limitare la corruzione e lo strapotere delle multinazionali). Il concetto è stato così riassunto da Henri Proglio, a capo della EDF, primo produttore di elettricità in Europa: il nucleare non è in alcun caso messo in discussione, e bisogna solo imparare a essere “più selettivi ed esigenti”.  

In prospettiva, sembra che stia mutando l’asse intorno al quale ruota tutta la dinamica del dual use del nucleare. E ancora una volta è l’Asia, con la sua fame di energia per il momento irrefrenabile, a dettare le regole del gioco. La rincorsa e la competizione tecnologica si spostano sempre più massicciamente dal settore militare a quello civile. In sostanza, la ragion d’essere della ricerca nel settore nucleare tende a passare dalle armi al perfezionamento dei sistemi civili di terza generazione. Ne deriva una rete di interessi che condiziona la politica sia nei paesi di vecchia industrializzazione (USA, Francia, Russia e Giappone) sia in quelli emergenti (come Cina e Corea del Sud). Le cifre parlano chiaro: sono 440 le centrali nucleari commerciali nel mondo, distribuite in 30 paesi e con una capacità equivalente al 16% della produzione totale di elettricità. Secondo i dati della World Nuclear Association, sono 61 le centrali già in fase di costruzione, di cui 27 in Cina, 5 in India e 5 in Corea del Sud; e già esistono progetti e trattative per altre 282.

Il passo indietro di Angela Merkel (come l’analogo stop deciso dalla Svizzera e il risultato del referendum italiano) non modifica il quadro globale. Come ricordava nei giorni scorsi Murakami Tomoko, dell’Istituto giapponese di economia dell’energia, Fukushima ha provocato un calo di competitività del Giappone, ma non un crollo nell’appeal del nucleare: il vuoto così creato è stato subito riempito da francesi, russi e americani. “La situazione di mercato – ha scritto – rimane immutata e soprattutto appare immutata la business strategy delle grandi compagnie”.

Un altro studioso nipponico, Nakano Koichi, ritiene poi che con ogni probabilità le nazioni con grandi tassi di crescita, a partire da Cina e India, non rallenteranno la loro espansione nucleare. Avranno qualche problema con le rispettive opinioni pubbliche, ma saranno in grado di enfatizzare i benefici del nucleare, anche presentandolo come energia pulita. È infatti troppo importante l’obiettivo della diversificazione delle fonti energetiche e della rottura della dipendenza da petrolio, gas e carbone. Il Wall Street Journal ha sottolineato che perfino l’unico paese dell’area che sembrava avere rinunciato al nucleare per timore dell’impatto ambientale, dei costi sociali e del rischio terremoto-tsunami, ovvero l’Indonesia, sta ora tornando sui suoi passi. Avviata a diventare il traino del gruppo ASEAN, l’Indonesia sarebbe pronta a dare il via libera a due centrali. Qualche titubanza semmai è stata mostrata dalla Thailandia, che però programmava di avere la sua prima centrale solo entro il 2020: eventuali rinvii, prefigurati dall’attuale governo, non inciderebbero dunque gran che sul quadro complessivo. Da contrappeso peraltro fa l’apparentemente inossidabile entusiasmo nucleare del Vietnam, che sta costruendo due centrali (per un costo di 12 miliardi di dollari) e che prevede di averne 13 entro il 2030.

La Cina è comunque il vero pilastro della corsa al nucleare. Al momento dispone di sole 13 centrali, che coprono l’1% del fabbisogno nazionale. Ma conta di realizzarne altre 77 entro la metà del secolo. Pechino ha già ampiamente ribadito che non intende cambiare i suoi piani. I dubbi sulla sicurezza vengono risolti ufficialmente ricordando che i nuovi reattori, prodotti dalla Westinghouse (il colosso americano che nel 2006 è stato acquistato dalla Toshiba) saranno della terza generazione; saranno quindi totalmente differenti, almeno nei sistemi di raffreddamento, da quelli di Fukushima. Sul piatto della bilancia anche l’ambizioso piano di riduzione dell’emissione di gas serra, che Pechino si è impegnata a realizzare e di cui proprio il nucleare è un elemento essenziale.

L’altro gigante, l’India, segue a ruota, ligio all’assioma che solo il nucleare garantirà in futuro crescite a due cifre. Dispone di 20 centrali che dovrebbero raddoppiare in venti anni; dopo Fukushima sono continuate senza ostacoli le trattative tra la Nuclear Power Corp of India Ltd da un lato, e Westinghouse e Hitachi (associata con General Electric) dall’altro. Intanto Areva avrebbe già raggiunto un accordo da otto miliardi di euro per due centrali di terza generazione. L’India attira però l’attenzione soprattutto per il significato politico del suo “sdoganamento” da parte delle potenze nucleari firmatarie del Trattato di non proliferazione (TNP). Il momento di svolta è stato il 2008, quando è giunto il via libera del Nuclear Suppliers Group a collaborare con un paese che ha mai aderito al TNP: è chiaro che da allora si sono anteposte le “ragioni” del nucleare civile a quelle del contenimento degli armamenti.

Rimane poi l’incognita giapponese: attualmente è proprio il Giappone il paese asiatico a maggiore intensità di nucleare civile: le sue 55 centrali coprono il 29% del fabbisogno nazionale (da raffrontare con la Francia, che detiene il primato mondiale con il 75% del fabbisogno). E il modello nipponico è stato imitato dalla Corea del Sud che (pur con un numero inferiore di centrali) copre così ben il 35% del proprio fabbisogno energetico. È vero che, dopo Fukushima, il governo Kan ha tagliato le prospettive di crescita del nucleare e ha annunciato che le (altre) rinnovabili dovranno coprire il 20% del fabbisogno entro il 2020; ma resta il fatto che ad oggi l’idroelettrico copre il 9% e il solare appena l’1%. Inoltre, il governo ha frenato sul progetto di portare la copertura del nucleare al 50% del fabbisogno, ma non c’è stato alcun “blocco” del nucleare, e tanto meno alcuno stop alle grandi imprese giapponesi che operano all’estero in questo settore.

A livello internazionale, completa il quadro il crescente impegno nel nucleare perfino dei grandi produttori di petrolio mediorientali: a parte il caso dell’Iran, ci sono l’Arabia Saudita (che nelle scorse settimane ha annunciato la costruzione di 16 centrali entro il 2030) e gli Emirati Arabi Uniti (che nel 2009 hanno affidato a una società coreana la costruzione di quattro reattori).

In ultima analisi, produrre energia dall’atomo è diventato certamente più difficile in alcuni paesi, ma è troppo presto per dare per morta l’era nucleare.