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La nuova centralità di Hezbollah in Libano e il fattore siriano

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Il nuovo governo libanese è stato finalmente formato, dopo cinque mesi di tensioni tra i partiti e tra le due maggiori coalizioni – entrambe identificate dalle date della loro creazione, nel 2005: 8 marzo e 14 marzo. La prima comprende i due partiti sciiti Hezbollah e Amal, usciti rafforzati dalle recenti negoziati, che sono alleati con i cristiani di Michel Aoun (la Corrente Patriottica Libera). La seconda coalizione (guidata dal partito al Mustaqbal di Saad Hariri) è composta di partiti sunniti alleati ai cristiani maroniti. Questo raggruppamento, indebolito dall’esilio volontario dello stesso Hariri, fuggito in Arabia Saudita a seguito di minacce di morte, non è presente nel nuovo governo.

I 30 portafogli ministeriali risultano così ripartiti: 18 alla coalizione dell’8 marzo – tra cui i due portafogli-chiave della Giustizia e della Difesa ad Hezbollah – e gli altri 12 suddivisi tra il partito del premier Najib Mikati, del presidente Michel Suleiman e dei Drusi di Walid Jumblatt.

Il leader siriano Bashar Assad si è immediatamente congratulato con Mikati per la formazione del nuovo governo, che riporta in parte il Libano sotto la sfera d’influenza siriana.

Il 2005, anno delle grandi manifestazioni di piazza che vide nascere entrambe le coalizioni e il ritiro dell’esercito siriano dal paese, appare oggi una stagione lontana o perfino chiusa – il che è paradossale visto che si trattò di una sorta di “primavera araba precoce” o una “rivoluzione arancione” nel contesto di una precedente ondata di processi di democratizzazione avviatasi allora in Ucraina. L’omicidio di Rafik Hariri aveva provocato una forte polarizzazione nella società libanese e aveva portato all’istituzione di un tribunale speciale internazionale per accertare le responsabilità (il Libano sostiene tuttora il 50% delle spese). Di fatto, era una denuncia dell’uso della violenza nelle faide confessionali del paese che rifletteva un consenso tra la maggioranza dei libanesi per superare quella visione della politica. Oggi, il tribunale sembra costituire solo una fonte di divisioni, che rischia a sua volta di stimolare nuovi episodi di violenza. L’ultimo governo, quello di Saad Hariri (figlio dell’ex primo ministro), è infatti caduto proprio sulla concreta volontà del Libano di perseguire una piena collaborazione con la comunità internazionale su questo delicatissimo dossier.

Il nuovo primo ministro, Mikati, non ha ancora sciolto la riserva del suo governo sul tribunale, ma la sensazione è che l’esito delle inchieste verrà insabbiato: il problema è infatti che assai probabilmente alcuni membri di Hezbollah saranno trovati colpevoli. Il programma di governo adottato da Mikati prevede perfino l’obiettivo di “scardinare il complotto di un tribunale internazionale politicizzato”, in linea con un’impostazione che sarà a dir poco controversa: viene ripresa l’equazione “esercito, popolo e resistenza”; viene proposta la revisione della politica economica del governo precedente; viene preannunciato lo smantellamento dei semi-autonomi servizi di informazione, definiti “quasi uno stato nello stato” (come se la milizia armata di Hezbollah non fosse anch’essa “un esercito oltre l’esercito”). Del resto, è l’intera struttura di potere del Libano a riflettere molteplici centri di potere autonomi gestiti su base confessionale.

La coalizione del 14 marzo, ora all’opposizione, si è già affrettata a dichiarare che “il nuovo governo è nato su istigazione della Siria”, nelle parole del coordinatore Fares Souhaid. Lo stesso tono ha assunto Samir Geagea, leader cristiano, sottolineando che “all’epoca in cui tutti i regimi arabi sono rovesciati (…), il Libano è guidato da un governo legato con un cordone ombelicale proprio ad uno di questi regimi”.

In parte reagendo a queste accuse preoccupate, alcuni hanno sottolineato il pluralismo presente all’interno dell’attuale governo e il fatto che la democrazia significa anche alternanza al potere: così ha fatto ad esempio il leader del Fronte della Lotta Nazionale, Jumblatt (che è stato incluso nel governo di coalizione, mentre l’altro ministro druso ha rifiutato ritenendo la ripartizione dei portafogli lesiva degli equilibri confessionali).

Anche Hezbollah, al centro dei timori sia interni al paese che internazionali, ha assunto toni concilianti e moderati, assicurando che il Libano resterà il paese dell’alternanza pacifica e “dell’unità nella diversità”. È vero che la retorica governativa della “resistenza” e della liberazione (un chiaro monito a Israele) può già considerarsi una vittoria politica di Hezbollah; ma per ora lo stesso Partito di Dio non è interessato ad alzare i toni in un momento in cui il suo tradizionale alleato siriano versa in cattive acque, e la popolarità dell’asse Siria-Iran-Hamas-Hezbollah è danneggiata dall’emergere del modello alternativo delle rivoluzioni popolari laiche in corso in Egitto e in Tunisia. Non è un caso dunque che, pur non abbandonando i propri obiettivi di sempre, Hezbollah prema adesso sul tema della fuoriuscita dalla crisi economica e su quello della tenuta dell’identità nazionale, piuttosto che sulla politica estera.

È chiaro che il condizionamento più forte e diretto viene dalla Siria, dove le manifestazioni (frequenti e trasversali) continuano a sfidare una repressione estremamente violenta. Il caso siriano è ormai più simile a quello libico che a quello dei paesi che sono percepiti come un punto di riferimento ideale per lo sviluppo della regione: questo preoccupa necessariamente il governo libanese, che rischia di finire risucchiato da dinamiche del tutto diverse rispetto all’avanguardia politica e intellettuale del mondo arabo. La questione è complicata dal fatto che alcuni degli scontri cruenti registratisi recentemente a Tripoli sono avvenuti tra fazioni sunnite (che dunque sostengono la coalizione oggi all’opposizione in Libano) e le forze alawite, a sostegno del regime di Assad.

In ogni caso, gli eventi siriani possono diventare un gravissimo problema per la coalizione al governo in Libano, e soprattutto per Hezbollah: per il Partito di Dio, infatti, dopo aver minimizzato i costi umani della repressione e aver messo in dubbio le genuine motivazioni sociali della rivolta, sarà difficile vantare ancora qualche appeal democratico.