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I riflessi internazionali del voto turco: luci e ombre

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I commenti sul voto del 12 giugno per il parlamento turco sono quasi unanimi: il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdogan ha vinto ma non ha stravinto. Nonostante l’incremento percentuale di voti che lo ha portato a sfiorare la maggioranza assoluta del voto popolare, ha fallito sia la soglia dei 366 seggi, sia quella dei 330, che avrebbero (rispettivamente) permesso al partito di governo di riscrivere la Costituzione da solo oppure indicendo un referendum popolare. Il sollievo è palpabile, tra le righe, in molte analisi di osservatori internazionali, così come nelle reazioni positive dei mercati: pur apprezzando le politiche economiche di Erdogan, gli investitori non avrebbero gradito un eccessivo sbilanciamento di potere in Turchia.

Il timore era insomma che un AKP con le mani libere – libero dunque anche di riscrivere da solo le regole del gioco – potesse provocare una deriva sia dal punto di vista della democrazia interna, sia in politica estera. Queste paure erano state esposte, nelle settimane precedenti al voto, anche da due articoli del Wall Street Journal e dell’Economist che avevano destato reazioni piccate ad Ankara, per come avevano messo in evidenza le crescenti restrizioni alla libertà di stampa nel paese, e la deriva filo-islamica e anti-israeliana della politica estera turca.

Non è un caso che il discorso pronunciato da Erdogan subito dopo la vittoria si sia concentrato proprio su questi due punti. Per gli affari interni, le sue posizioni sono state molto concilianti, con un’apertura a tutte le forze che vogliano cooperare per riscrivere le regole del gioco sia nel mondo politico, sia nella società civile. Dichiarazioni fatte proprie anche da Kemal Kiliçdaroğlu, il leader del principale partito di opposizione (Il Partito Repubblicano del Popolo) – che peraltro fanno ben sperare per un rilancio del processo di integrazione turca nell’UE, visto lo stretto legame tra riforme interne e rapporti con l’Europa.

Sui rapporti internazionali, la risposta del primo ministro turco non è stata esattamente quella che l’occidente avrebbe desiderato, ma il quadro non è del tutto negativo. L’appello è stato di tipo panislamico, con l’affermazione che la vittoria dell’AKP rappresenta una vittoria per tutte le masse in cerca di democrazia e di libertà, dal Medio Oriente al Nord Africa, dai Balcani al Caucaso. Masse che in molti casi, come in Palestina e in Macedonia, hanno festeggiato in piazza la conferma al potere del partito di governo turco. È chiaro il tentativo della Turchia di affermarsi come potenza regionale egemonica – dopo gli iniziali tentennamenti – nei processi di democratizzazione e nelle rivolte in corso. D’altra parte, questo obiettivo ha richiesto anche l’assunzione di un atteggiamento sempre più critico di Ankara verso il regime di Damasco, con aperture ai rappresentanti dell’opposizione, e l’accoglimento incondizionato dei profughi in fuga dagli scontri nel paese confinante. Queste mosse di Ankara hanno spinto il regime siriano a organizzare massicce manifestazioni di fronte all’ambasciata turca di Damasco e al consolato di Aleppo, proprio mentre nelle città turche si festeggiava la vittoria dell’AKP.

Accanto a quella con la Siria, l’altra relazione critica di Ankara in Medio Oriente è quella con Israele, con cui la Turchia non ha ancora ripreso normali relazioni diplomatiche dopo l’incidente della Freedom Flotilla del 2010. Nei giorni prima del voto i segnali da parte turca sono stati ambigui: alcuni negativi (l’accusa di Erdogan all’Economist e al Wall Street Journal di essere al servizio dello stato ebraico), altri positivi (l’accenno del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu sull’opportunità di soprassedere sul varo di una seconda Freedom Flotilla, che pare possa essere accolto dagli organizzatori). Da parte israeliana, vi è grande diffidenza, bene espressa da un editoriale del Jerusalem Post, secondo il quale “l’unica cosa buona che si può dire della vittoria dell’AKP è che non è stata una vittoria completa”. Tuttavia, i politici israeliani sembrano voler sfruttare pragmaticamente il voto turco come un punto di svolta per normalizzare le relazioni con Ankara. È una posizione espressa dal vice ministro degli Esteri Danny Ayalon, il quale ha appunto invitato la Turchia a bloccare la Freedom Flotilla, sostenendo che Israele non considera Ankara un nemico; ma soprattutto dal primo ministro Netanyahu, che si è complimentato per lo svolgimento regolare del voto in Turchia, auspicando che l’attuale stato di tensione tra i due paesi possa cessare.

Significative anche le reazioni ufficiali del governo americano dopo il voto: Washington ha voluto evidenziare come i due paesi stiano lavorando insieme su numerose questioni bilaterali e multilaterali. Fra queste, è in primo piano la questione siriana, che è stata discussa alla vigilia delle elezioni in un colloquio tra Davutoğlu e Hillary Clinton.

La posizione di alto profilo assunta dalla Turchia in Medio Oriente è stata poi confermata da una nuova offerta di Ankara per una mediazione in Libia. Questo atteggiamento del governo Erdogan pare essere cautamente approvato da Washington, specie in un momento in cui Teheran, tramite il ruolo di Hezbollah nel nuovo governo libanese, pare nuovamente intensificare la sua presenza nella regione. Resta da vedere se e in che misura questa strategia condivisa, ancora in embrione, si incaglierà nello scoglio delle relazioni turche con Israele.