international analysis and commentary

L’Italia e le difficili scelte in Afghanistan

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Il dibattito sull’Afghanistan è rimasto in Italia, tutto sommato, abbastanza in sordina. Complici una generale indifferenza dell’opinione pubblica verso la politica estera e il generale consenso sulla missione tra le forze politiche che rappresentano il mainstream del nostro parlamento. E ciò a differenza di quanto è invece accaduto in altri paesi della coalizione (Olanda e Canada, ma anche Germania). La tragica morte dei quattro alpini il 9 ottobre, che ha fatto salire a 34 il numero delle vittime italiane, e la discussione interna che ne è scaturita, sembrano voler segnare un’inversione di tendenza. Siamo forse a un punto di svolta.

Ben venga la rinata attenzione verso la più importante missione della NATO dalla fine della guerra fredda ad oggi. Il dibattito però rischia di diventare riduttivo e fuorviante se si concentrerà soltanto sui previsti tempi di uscita, e sul ritiro delle truppe, dimenticando tutto il resto e soprattutto due dati: l’importanza degli obiettivi e della posta in palio, e le responsabilità internazionali del nostro paese nel contribuire a raggiungerli.

Siamo lì perché un Afghanistan instabile e trasformato nuovamente in ‘safe haven’ per i terroristi significherebbe un’Europa meno sicura e un’Italia meno sicura; siamo lì perché, per quanto la coalizione internazionale sia ampia, é il ‘nucleo duro’ dell’Occidente e dell’Alleanza atlantica, tra cui l’Italia – per expertise e capacità militari – ad avere una responsabilità particolare nel doverla portare a termine (malgrado il tentativo di coinvolgere un più ampio numero di paesi). I tempi di avvio della riduzione dell’impegno militare e del progressivo disimpegno delle truppe combattenti – tra il 2011 e il 2014 – sono noti da tempo e figurano nei documenti ufficiali della NATO, anche se richiederanno la flessibilità dettata dall’evoluzione della situazione sul terreno (essendo piani ‘condition-based’). Quanto detto e scritto in questi giorni frenetici, rispetto alla “transition strategy”, non costituisce quindi nulla di nuovo. Lo avevano già detto e ripetuto tutti i principali leader, da Barack Obama a David Cameron a Hamid Karzai. È normale che lo si dica anche da noi e lo si sottolinei con maggior insistenza ogni qualvolta cadono dei nostri soldati, così come è normale che l’opinione pubblica venga in questo senso rassicurata sul fatto che i nostri militari non resteranno lì per sempre. Ma nel rassicurare dobbiamo anche rendere consapevole l’opinione pubblica sul nostro interesse a raggiungere gli obiettivi e sulle nostre specifiche responsabilità.

Se dall’11 settembre 2001 ad oggi non abbiamo subìto attentati terroristici di matrice qaedista sarà pure perché grazie al nostro impegno in Afghanistan abbiamo tenuto lontano il pericolo dal nostro territorio. Se dovessimo abbandonare oggi l’Afghanistan, lasciando il lavoro incompiuto, potremmo ritrovarci esposti nuovamente alla minaccia. I costi di un disimpegno prematuro sarebbero alti, e vanificherebbero tutto quanto abbiamo cercato con pazienza di costruire in questi anni. Il nostro impegno e il tener fede alle responsabilità hanno garantito all’Italia la difesa del proprio peso e della propria credibilità internazionali in un mondo sempre più competitivo. In un certo senso l’Afghanistan ha sostituito i Balcani come fiore all’occhiello del nostro impegno internazionale. La nostra opinione pubblica deve essere consapevole che contiamo nel mondo anche perché diamo un contributo significativo nel teatro afghano. Se non ci fossimo, o se fossimo lì in maniera più riluttante, conteremmo assai meno (lo stesso vale per tutti gli altri paesi della coalizione) e finiremmo per dover subire le decisioni internazionali, anche contro i nostri interessi nazionali, anziché partecipare alla loro definizione. Anche quando ridurremo l’impegno militare in Afghanistan non potremo ridurre quello complessivo, che include anche la dimensione civile (institution-building) ed economica, se vogliamo che la stabilizzazione diventi irreversibile.

Il completamento della missione, attraverso l’assistenza civile ed economica, richiederà tempi lunghi, così come del resto è accaduto in altri meno complessi teatri post-conflitto, come i Balcani, dove siamo da quindici anni, con sempre meno truppe ma con un inalterato impegno civile, grazie anche all’accresciuta presenza dell’UE in quell’area. Non è stata ancora pienamente interiorizzata nel nostro paese la consapevolezza che il nostro impegno militare e civile nelle missioni di pace è diventato, dopo l’89, un dato strutturale del nostro stare nel mondo. Siamo definitivamente ed irreversibilmente passati dall’essere consumatori al doverci legittimare sul piano internazionale come produttori di stabilità. Questo nostro contributo alla stabilità nelle aree di crisi dovrebbe diventare parte anche della nostra identità nazionale: un patrimonio di tutti, tanto più ora che si avvicina il 150° anniversario dell’unificazione d’Italia.