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La traiettoria di Obama vista dal Giappone

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Nel 2008 due novità parallele, percepite da alcuni come cambiamenti epocali, avevano contraddistinto a pochi mesi di distanza il panorama politico statunitense e giapponese: l’arrivo di Obama alla casa Bianca e la vittoria del Partito Democratico (DPJ) in Giappone. Per il paese del Sol Levante quel passaggio ha segnato la fine del cosiddetto one-and-a-half-party democracy e del monopolio – di fatto – del Partito Liberal Democratico. Se ne poteva dedurre che i rapporti tra Washington e Tokyo avrebbero subìto una scossa senza precedenti.

Eppure oggi, alla vigilia delle elezioni di midterm in America e col Giappone sotto shock per la crisi delle Senkaku con la Cina, per molti versi il quadro sembra tornato su binari più consueti. Il governo giapponese ha ribadito, senza le ambiguità del recente passato, che il faro della sua politica estera resta l’alleanza con gli Stati Uniti. E gli americani si sono mostrati ben lieti di confermare la loro presenza protettiva, in Giappone come in tutta la regione. Le Senkaku sono coperte dal patto di sicurezza USA-Giappone che consente a Washington di rispondere ad attacchi militari contro il territorio giapponese, ha ricordato Hillary Clinton il 24 settembre ottenendo formali ringraziamenti dal collega giapponese Seiji Maehara.

Resta la deriva, lenta ma probabilmente irrefrenabile, del Giappone verso la “normalità”, ovvero una piena indipendenza con annessa revisione dell’articolo 9 della Costituzione – la norma che limita le capacità militari del paese. Ma, come suggeriscono fonti diplomatiche a Tokyo, in questa fase la sindrome di abandonment sta prevalendo su quella di entrapment. La dipendenza dall’alleato americano per il momento paga. E intanto sono i sentimenti anticinesi a dare sfogo alle spinte nazionalistiche, che dunque per ora non si rivolgono verso gli Stati Uniti come è invece accaduto nel recente passato.

Le due novità rappresentate da Obama e DPJ, in sostanza, hanno dato somma zero. Sembravano molti i punti in comune tra le due nuove leadership, come il sostegno di una classe media impaurita dalla disoccupazione e la necessità di adeguare le aspettative della gente all’erosione del potere relativo dei rispettivi paesi in un mondo globalizzato. Dopo il passaggio delle consegne da Yukio Hatoyama a Naoto Kan, anche il Giappone ha scelto un leader con il profilo dell’outsider pur in un contesto politico abituato alle grandi famiglie dominanti. Ma la fiducia – o per meglio dire la “fratellanza”, stando al termine (yuai) usato da Hatoyama – che doveva essere il vero collante della equal relationship con gli USA, non è esplosa come asupicato.

L’amministrazione Obama ha percepito come una pugnalata la repentina decisione del governo Hatoyama di ritirare le navi inviate nell’Oceano Indiano in appoggio alla missione in Afghanistan. La questione dello spostamento della base americana di Futenma (Okinawa) continua poi a rappresentare un evidente fattore perturbante, che neppure la visita di Obama a Tokyo, nel novembre 2009, è riuscita a superare. Inoltre, sull’appello alla fiducia lanciato da Hatoyama, e condiviso da Obama, incombeva il fantasma del G2 Cina-USA. Per l’uno la fiducia doveva costituire il punto di partenza di una ristruttrazione radicale della alleanza, per l’altro era la conseguenza del rispetto degli accordi presi, ivi compreso quello del 2006 sul riposizionamento dei marines.

I sondaggi fatti nel 2008 indicavano che la maggioranza dei giapponesi preferiva Obama a McCain. I rapporti USA-Giappone, sui quali Obama si era limitato a fare qualche scontato accenno, non erano però determinanti: contava invece il fatto che Obama prometteva di differenziarsi dalla gestione Bush, contestata a causa della guerra in Iraq, per certe scelte economiche, e per il rifiuto di impegnarsi contro il climate change. A ciò si agigungevano le pressioni spesso rudi esercitate su Tokyo, in particolare attraverso il responsabile per l’Asia del Dipartimento di Stato, Richard Armitage, molto assertivo nel chiedere al Giappone una maggiore proiezione esterna in nome della sicurezza regionale. Obama incarnava, in particolare, il profondo desiderio di un cambiamento del quadro politico interno: un desiderio condiviso dai giapponesi. Nondimeno, non c’era un entusiasmo paragonabile a quello degli europei. Varie le ragioni di questo parziale scetticismo, dal gap culturale al conservatorismo di una classe dirigente che si allunga anche nel DPJ, all’abitudine a considerare i repubblicani amici più fidati, e soprattutto meno inclini a sbandate filocinesi – in Giappone ancora si ricorda lo sgarbo di Bill Clinton, che volò a Pechino senza prima fare tappa a Tokyo.

Una volta al potere, Obama ha scelto la via dell’engagement: dal suo punto di vista, un costruttivo e pacifico approccio alle crisi regionali in nome della rinuncia all’unilateralismo; per molti politici e opinion makers giapponesi, un atteggiamento troppo morbido rispetto alle crescenti pretese della Cina e alle follie della Corea del Nord. Ha questo punto ha preso a guadagnare consensi una politica alternativa al tradizionale allineamento con gli USA, mentre parallelamente il dialogo del Giappone con la Cina si approfondiva, sotto la spinta di un mondo degli affari che considerava il mercato cinese l’unico mezzo per raddrizzare la traballante situazione economica. “Alternative,” nota Masaya Oikawa, ex corrispondente a Washington del Mainichi Shinbun, “non ne forniva certo Obama, che aveva promesso tre milioni di posti di lavoro senza poi realizzarli mettendo in difficioltà il DPJ, che aveva basato la sua vittoriosa campagna elettorale sul job, job and job grazie al volano americano. E inoltre ben scarso sostegno veniva fornito per proteggere lo yen dalle fluttuazioni”.

A fare risalire le quotazioni di Obama è però intervenuta la dichiarazione di Praga dell’aprile 2009, con l’obiettivo ultimo della eliminazione di tutte le armi nucleari. Malgrado la mancanza di effetti reali a breve termine, quell’iniziativa ha avuto per il suo valore simbolico un profondo impatto sul Giappone – paese che si considera il capofila nel contrasto alla proliferazione nucleare, sia a livello di elites che di opinione pubblica. Le parole di Obama autorizzavano perfino a sperare che il presidente americano fosse pronto alle scuse ufficiali per le fatali bombe del 1945. In realtà il 6 agosto, alla commemorazione di Hiroshima ha presenziato solo l’ambasciatore americano, John Ross, che poi si è recato anche a Nagasaki. “È stato comunque un ulteriore passo di grande significato,” spiega Tsutomu Ishiai deputy editor all’Asahi Shinbun, “e se Obama non è venuto, nessuno se l’è presa. Bisogna attendere il momento opportuno per una visita così importante e questo non lo era, a tre mesi dalle elezioni di midterm. Si sa che in America per molti è ancora un tabù mettere in dubbio che sia stato giusto sganciare la bomba atomica”.

Malgrado il piccolo incidente rappresentato dal test “subatomico” statunitense del 15 settembre, che ha suscitato l’indignata reazione del sindaco di Hiroshima, a confermare la generale sintonia con Obama è poi venuta l’adesione americana alla bozza di risoluzione presentata il 15 ottobre all’ONU dal Giappone. Si tratta di una richiesta alle potenze nucleari – più perentoria rispetto agli analoghi documenti degli anni passati – di intraprendere concrete politiche per ridurre e alla fine eliminare tutte le armi atomiche.

In chiave filo-obamiana si possono poi leggere l’avvicendamento alla guida del governo tra Hatoyama e Kan (a maggio), e soprattutto la sconfitta nella corsa alla direzione del DPJ di Ichiro Ozawa, che capeggiava l’ala più fredda verso Washington, contestava qualunque tipo di appoggio alle operazioni in Afghanistan, e puntava tutto sulla Cina.

Infine, la crisi delle Senkaku con la Cina ha messo il governo Kan con le spalle al muro. Il risultato – stando alla valutazione di una fonte diplomatica occidentale – è che ora il DPJ dà a Obama un voto di piena sufficienza. Lo stesso si può dire per la stampa e l’opinione pubblica nel complesso.