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L’epicentro nigeriano della minaccia di Boko Haram

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Le elezioni nigeriane previste per il 14 febbraio sono state posticipate a sorpresa, appena qualche giorno prima che gli elettori si recassero alle urne. Per il rinvio, di almeno sei settimane, è stata fornita la motivazione ufficiale che l’esercito non sarebbe stato in grado di garantire la sicurezza del voto dagli attacchi di Boko Haram – il gruppo jihadista attivo in varie zone del Paese.

La decisione della commissione elettorale – guidata da Attahiru Jega – ha ovviamente scontentato l’opposizione, come anche l’amministrazione Obama, che osserva con attenzione i fatti nigeriani e ha deplorato la scelta con una nota ufficiale.

Non si tratta della prima volta che i governi nigeriano e americano si trovano su fronti opposti riguardo alla gestione della sfida posta da Boko Haram. Per comprendere la clamorosa ascesa di Boko Haram va ricordato un episodio, carico di valore simbolico, accaduto alla fine del 2014. In quell’occasione l’Ambasciata americana di Abuja ha annunciato l’abbandono del programma di addestramento antiterrorismo delle forze speciali nigeriane che gli USA stavano portando avanti – abbandono giunto su esplicita richiesta del governo locale.

Questa netta contraddizione tra la necessità di combattere il gruppo jihadista da parte del governo centrale (ufficialmente riconosciuta) e una lunga serie di scelte politiche e militari di segno nettamente opposto getta una luce sinistra sul quadro interno nigeriano.

Rimandare le elezioni presidenziali è di per sé una decisione grave, in particolare per uno Stato africano con istituzioni giovani (da quando è diventata una nazione indipendente, la Nigeria ha patito quattro giunte militari, l’ultima delle quali ha gestito il potere sino al 1999). Ma assume proporzioni ancor più serie alla luce della minaccia diretta posta da Boko Haram.

In un simile scenario, dominato da dinamiche di potere trasversali ed opache, Boko Haram ha avuto facile gioco a crescere, reclutare, stringere nuove alleanze e ampliare la scala del proprio raggio d’azione – con aspirazioni regionali ormai coronate da qualche successo. Sono di pochi giorni fa l’autobomba alla frontiera del Niger e il dirottamento di un pullman in Camerun.

Quando ormai più di due anni fa alcuni osservatori iniziarono ad occuparsi di questo spietato gruppo (attivo in realtà già da quattro), uno scrupolo quasi filologico portava gli analisti a classificarlo come una “setta”: una neo-formazione islamista seguace del verbo del fondatore Mohammed Yusuf, il cui leitmotiv di propaganda era la proibizione della cultura e dei costumi occidentali. Una sigla tra molte altre; agguerrita ancorché piccola, dotata sì di una struttura paramilitare ma attiva in zone ben delimitate del nord-est nigeriano.

Oggi, e a pochi giorni dalla scadenza naturale del mandato presidenziale in Nigeria, Boko Haram rappresenta invece la principale forza terroristica del continente africano. E contende (anche sui media occidentali) all’altrettanto tristemente celebre Stato Islamico il primato per la ferocia delle proprie azioni e l’audacia delle proprie aspirazioni.

Lungi da essere una minaccia solo per la Nigeria, Boko Haram ha lanciato negli ultimi tempi attacchi, oltre che contro i menzionati Niger e Camerun, anche contro il Ciad, e non teme alcun confronto di carattere militare con le truppe regolari di questi Paesi, che spesso sovrasta per forza di fuoco e determinazione nel morale.

La scarsa preparazione dell’esercito nigeriano rappresenta in effetti uno degli ostacoli maggiori alla vittoria, sul terreno, nella lotta contro Boko Haram, soprattutto quando alla mancanza di addestramento specifico dei soldati, si unisce una strategia di comando alquanto approssimativa se non addirittura connivente con i terroristi.

Per questa ragione l’ECOWAS (la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale), che ha la cabina di regia della repressione del fenomeno islamista in Mali, sta raccogliendo una forza multiregionale composta, oltre che dalla Nigeria, da Benin, Ciad, Camerun e Niger. Il Mali ha un ruolo particolare in questo scenario regionale, visto che è stato teatro del primo tentativo da parte di un cartello di forze jihadiste di esercitare il controllo (di tipo statuale) di uno specifico territorio, sul quale applicare una legislazione islamica sostituiva di ogni diritto civile laico. Inoltre il Mali ha sperimentato l’efficacia di un’alleanza tra sigle diverse che hanno agito dalla Libia alle coste occidentali dell’Africa dando prova di potenti interconnessioni e organizzazione logistica.

La Francia intende inviare 3.000 soldati nell’area, oltre a quelli già attivi proprio in Mali e in Repubblica Centrafricana. Anche Israele e Canada contribuiranno allo sforzo internazionale, che vede coinvolta perfino la Cina (ormai un vero leader commerciale in quasi tutto il continente africano, con forti interessi strategici). Del resto, la Nigeria, nel corso del 2014, è risultato il Paese con il maggior numero di vittime per azioni terroristiche al mondo: 3.477 morti in 146 attacchi, tutti a firma Boko Haram.

I fatti recenti segnano un ulteriore punto di passaggio: l’ammissione che il governo centrale nigeriano non sia in grado di garantire, oltre alla trasparenza del voto (un fatto già di per sé problematico) addirittura l’incolumità dei seggi elettorali è l’ammissione di una sconfitta senza precedenti. Va ricordato che parliamo della prima economia africana e del Paese demograficamente più grande del continente (quasi 180 milioni di abitanti).

A questo punto, peraltro, la ricandidatura del Presidente uscente, il cristiano Goodluck Jonathan, appare assai più debole, visto che va ritenuto principale responsabile del fallimento della strategia di contrasto a Boko Haram.

Il candidato dell’opposizione, l’ex Generale Muhammadu Buhari, uomo dell’esercito e capo della dittatura militare che governò il Paese dal 1983 al 1985, potrebbe così apparire sotto una luce migliore non solo per la fama di incorruttibile di cui gode, ma anche perché originario del nord musulmano. Il principale interrogativo sul campo è quindi se la Nigeria confermerà, con Jonathan, le scelte fatte negli ultimi anni sotto un presidente poco amato e di fatto inefficace, o se invece tenterà di intraprendere un nuovo percorso, come auspicano sia le forze interne sia gli alleati internazionali. Lo farebbe però ripescando paradossalmente dal proprio passato più oscuro.

Buhari, che è scampato ad un attentato proprio di Boko Haram nel maggio scorso, è un islamico moderato, che si è espresso pubblicamente a favore della tolleranza religiosa. Come uomo dell’esercito, inoltre, potrebbe intervenire sull’organizzazione e sul morale delle truppe ormai in caduta libera – i continui casi di ammutinamento da parte di soldati poco addestrati e poco armati sono ormai all’ordine del giorno.

Bisogna infine tenere conto dei crescenti interessi occidentali nel Paese; lo Stato nigeriano è infatti il socio di maggioranza delle principali aziende petrolifere americane ed europee che operano in Nigeria e che giocano un ruolo, seppur indiretto, negli equilibri del gigante africano.

Queste forze economiche (senza mai dimenticare la Cina) hanno a cuore principalmente la stabilità politica e la sicurezza, per cui sono disposte anche a tollerare la corruzione diffusa in molti ambienti del governo e dell’amministrazione. Quello che però non possono accettare è una destabilizzazione su larga scala dovuta all’offensiva di Boko Haram, che ormai condiziona la vita politica – e formalmente democratica – della Nigeria, come appunto la sospensione delle elezioni dimostra in maniera eloquente.

Per ora il quadro rimane molto incerto. Nonostante le rassicurazioni del Ministro dell’Interno Abbo Moro, l’esercito nigeriano non è certamente in grado di risolvere il problema Boko Haram “in sei settimane”, se non può neppure garantire elezioni eque e libere. La Costituzione, inoltre, permette in teoria di posticipare ulteriormente il voto e quindi non va esclusa la possibilità che le urne non aprano nemmeno il 28 marzo (l’ultima data fissata ad oggi).

Resta poi il sospetto che la decisione del governo di rimandare il voto sia anche dovuta, più banalmente, al rischio per Jonathan di perdere le elezioni: le dinamiche politiche si intrecciano con quelle terroristiche e militari. In effetti il Presidente uscente ha buone ragioni per temere una sconfitta elettorale: non ha saputo combattere adeguatamente l’ascesa di Boko Haram negli ultimi quattro anni; non ha risolto i problemi sociali del Paese (specie nel nord musulmano); non ha affrontato il tema della tumultuosa crescita demografica e urbana.

Jonathan è quindi consapevole che le potenze occidentali vedrebbero di buon occhio un musulmano moderato alla guida del colosso nigeriano anche come segnale di distensione verso il nord e la massa non cristiana, che costituisce l’altra metà della nazione e non ha quasi rappresentanza politica. Sospendere le elezioni è sì una scorciatoia tattica, ma in un Paese in stato d’emergenza nulla va dato per scontato.