Il 15 maggio 2011, l’anniversario della nascita dello Stato di Israele nel 1948 che gli arabi chiamano Nakba (catastrofe), si è registrata una manifestazione di palestinesi (con varie cittadinanze) lungo i confini di Israele e dei territori palestinesi. Il tentativo di alcuni manifestanti di attraversare il confine, .ha provocato la reazione delle forze israeliane, con almeno 14 morti. Tre autori di Aspenia online offrono la loro analisi sugli eventi e le possibili implicazioni.
da Gerusalemme e Il Cairo
di Claudia De Martino
Il 15 maggio, 63° anniversario della Nakba, migliaia di profughi palestinesi di ogni paese arabo limitrofo ad Israele si sono ritrovati lungo i confini della Palestina mandataria (cioè la Palestina “allargata”) per ricordare il legame tra conflitto arabo-israeliano e diritto al ritorno dei rifugiati. Non esistono stime ufficiali, ma si parla di migliaia di palestinesi in Libano e Siria, e di alcune centinaia in Giordania, West Bank (Qalandiya, checkpoint di Ramallah) e Gaza (al valico di Erez), e infine di alcune decine a Gerusalemme Est, dove si sono registrati scontri a Silwan e nella Città Vecchia.
Per la prima volta, il complesso di accerchiamento israeliano ha preso corpo e consistenza in un fiume umano che si è riversato lungo i suoi confini, in qualche modo minaccioso anche senza armi. La forza di questa manifestazione deriva soprattutto dalla consapevolezza della ritrovata unità nazionale palestinese e nell’ottica del riconoscimento dell’Assemblea delle Nazioni Unite atteso per settembre.
All’indomani delle manifestazioni, sia Israele che il Libano hanno protestato presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, addossandosi a vicenda la responsabilità degli scontri avvenuti sul confine, vicino a Maroun el-Ras (lungo la famosa Linea Blu pattugliata dall’UNIFIL). L’unico dato certo è che sul terreno sono rimasti morti 10 palestinesi che partecipavano alla manifestazione, provenienti dai campi profughi a sud di Beirut. L’UNIFIL, nella persona del generale Asarta, attualmente al comando, sembra aver incolpato decisamente Israele, che ha parlato invece di una deliberata provocazione da parte libanese. L’esercito libanese aveva effettivamente scortato i pullman dei manifestanti fino al confine, con l’ordine specifico di consentire una manifestazione pacifica ed evitare scontri con le forze israeliane.
Diverso il discorso per quanto riguarda le Alture del Golan, da sempre terreno di disputa con la Siria, dove i drusi israeliani guardano da due mesi impotenti alla repressione dei loro confratelli oltre il confine e sarebbero pronti ad accoglierli dall’altra parte. Anche qui centinaia di palestinesi si sono schierati lungo la no man’s land di Quneitra, disertando per un giorno le manifestazioni anti-Assad, e sono riusciti a penetrare pacificamente nel villaggio druso di Majdal Shams: quattro di loro sono stati uccisi. Molti abitanti del villaggio (drusi) hanno protestato contro l’abuso di forza israeliano, dichiarando alla stampa che i giovani che avevano scavalcato la rete metallica e attraversato i campi minati volevano “tornare a casa”, ripercorrendo a ritroso la rotta del ’48. L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Meron Reuben, ha immediatamente tacciato la Siria di voler deviare l’attenzione mediatica mondiale dalla propria cruenta repressione interna; la realtà sembra essere però che, mentre il governo siriano ha sicuramente accolto con sollievo la manifestazione anti-israeliana e sostenuto l’assembramento pacifico dei manifestanti, non è all’origine della sua organizzazione.
Per parte sua, la Giordania ha vietato la manifestazione, e a circa 500 manifestanti diretti al King Hussein Bridge e assemblati nei dintorni di Karama è stato impedito di varcare il confine. Si sono avuti 25 feriti (tra cui 11 poliziotti) negli scontri tra forze dell’ordine giordane e manifestanti. Le forze israeliane non hanno quindi avuto bisogno di intervenire su questo fronte. Si può osservare che le cifre della manifestazione sono state assai modeste per un paese come la Giordania che conta 6.3 milioni di palestinesi tra i propri cittadini, con pieni diritti. D’altro canto, la Giordania è l’attore regionale più coinvolto nel mantenimento di quell’architettura di sicurezza post-1979 che si fonda sul pieno coordinamento con Israele.
L’editoriale collettivo del Jerusalem Post, normalmente un buon barometro dell’opinione di centro-destra e filo-governativa israeliana, ha commentato che gli eventi di questa Nakba sono particolarmente inquietanti: il motivo è che ricordano a Israele che gli arabi non combattono per la restituzione dei territori occupati nel ’67 ma per la Palestina intera. Il mito della distruzione dello stato ebraico sarebbe ancora molto diffuso nella terza generazione di rifugiati.
In realtà, quello a cui si è assistito lo scorso 15 maggio è un fenomeno completamente nuovo, che ha le sue radici nelle recenti rivolte arabe e alla Gaza Flotilla più che nelle politiche aggressive dell’OLP, di Hezbollah, di Hamas o di altri tradizionali nemici di Israele. Molte delle rivolte erano spontanee, e in alcuni casi in contrasto con le direttive emanate dai rispettivi governi. L’episodio si inserisce quindi nella più generale comparsa di un’opinione pubblica araba più consapevole, sebbene ancora inesperta, nello scacchiere mediorientale.
di Lorenzo Kamel
Per l’uomo comune palestinese, Yawm an-Nakbah, il “giorno della catastrofe”, non è la negazione di qualcosa, bensì il ricordo di un sogno infranto: la Palestina. Gli eventi di questi giorni confermano che quella sofferenza, radicata nella storia, è stata quasi sistematicamente strumentalizzata – e anche banalizzata. Tutt’oggi, troppi continuano a valutare la risoluzione 181 dell’ONU, quella che nel novembre 1947 sancì la spartizione della Palestina, con un approccio bianco o nero. Per molti fu un atto di giustizia; per altri un’imposizione deprecabile. Fu in realtà entrambe le cose.
Le marce di questi ultimi giorni, alle quali purtroppo hanno partecipato anche delle minoranze di estremisti, impongono tuttavia l’obbligo di gettare un occhio al futuro, prima ancora che al passato. Le autorità israeliane hanno bollato i manifestanti come un manipolo di “infiltrati”, quasi per esorcizzare il problema e ignorare il fenomeno senza precedenti che sta investendo l’intera regione: è però una linea che sta fallendo in tutto il mondo arabo e che, forse non subito, fallirà anche in Israele.
Chi ha vissuto in Israele in questi ultimi anni non ha potuto fare a meno di notare quanto sia cresciuto nel paese il “Lieberman-pensiero”, ovvero un approccio che non ha tra le sue priorità quello della ricerca di un possibile compromesso. È questo un modo di filtrare la realtà che si è alimentato dello stallo del processo di pace e rafforzato con i voti del “blocco russo” di recente immigrazione. Negli ultimi tempi ha anche trovato una potente sponda nel mondo studentesco, grazie a Im Tirzù, un’organizzazione, sostenuta dal premier Benjamin Netanyahu e da numerosi altri leader. Si tratta di un gruppo impegnato, tra le altre attività, a scovare, denunciare e boicottare i docenti che nelle università israeliane sostengano tesi da loro giudicate contrarie al Sionismo: “La Nakba – recita la nuova campagna lanciata da Im Tirzù il 13 maggio – è un mito e una truffa, mirante a riscrivere la storia così da trasformare la vittima in aggressore”.
Ciò che anche i numerosi morti di questi giorni dovrebbero insegnarci è che l’unica soluzione è quella di dar vita a politiche tese a capire la sofferenza dell’altro. Vietare, come deciso nel 2009 dal ministero israeliano dell’Educazione, il termine Nakba dai testi scolastici, chiamare Israele “entità sionista” come fanno tutt’oggi i leader di Hamas, finanziare degli insediamenti che bloccano l’accesso all’acqua e al suolo di milioni di persone, lanciare missili, sfrattare persone dalle proprie case usando cavilli giuridici: nessuna di tali strategie, tutte in ultima analisi tese a ignorare l’altro, potrà essere la strada giusta verso una qualche forma di riconciliazione.
Israeliani e palestinesi, volenti o nolenti, hanno ed avranno bisogno gli uni degli altri. Israele non sarà mai una nazione pienamente compiuta finché anche i palestinesi non avranno un loro Stato e finché non verrà riconosciuta fino in fondo la sofferenza che le legittime aspirazioni del popolo ebraico hanno comportato per quello palestinese. Quest’ultimo, oggi più che mai dipendente politicamente, economicamente e culturalmente dalla controparte, deve una volta per tutte riconoscere la futilità e l’immoralità della violenza, così come le proprie evidenti responsabilità nel non aver saputo cogliere le numerose occasioni che si sono presentate dal 1948 fino ai giorni nostri. È in sostanza oggi il tempo del dubbio e non quello delle certezze. Proprio quel “dubbio” che Norberto Bobbio indicò in Politica e Cultura come il succo della nostra civiltà: “L’inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose”.
di Azzurra Meringolo
Le manifestazioni egiziane a sostegno della causa palestinese, con la marcia verso il confine con Gaza e le proteste al Cairo, erano state programmate già lo scorso marzo. Allora, una pagina Facebook prevedeva lo scoppio di una terza Intifadah proprio per il 15 maggio. In due settimane la pagina era arrivata ad accogliere 230 mila membri, innervosendo il governo di Tel Aviv che aveva chiesto agli amministratori di Facebook di rimuoverla. La pagina è in effetti scomparsa, ma è comparso su internet un sito con lo stesso nome, sul quale sono state organizzate le manifestazioni del 15 maggio. Descritte espressamente come pacifiche, queste avevano due obiettivi: marciare verso Rafah chiedendo al Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane, ora al potere, di rispettare la promessa fatta lo scorso mese di tenere aperto questo valico in modo permanente; e circondare l’ambasciata israeliana al Cairo per manifestare contro l’occupazione dei territori.
Ed è stato proprio davanti alla sede diplomatica israeliana che si sono registrati gli scontri più violenti tra militari e manifestanti nei quali sono rimasti feriti più di 350 egiziani, a seguito di una reazione violenta dei militari che ha ricordato i vecchi metodi usati dalla polizia di stato durante il regime di Mubarak. La questione, dunque, ha un diretto riflesso di politica interna per l’Egitto. Come ha scritto un editorialista egiziano, l’impressione è che “l’esercito è più attento a difendere Israele che i suoi cittadini”. La critica sottostante, e grave, è che i militari non sono in grado di comprendere quello che davvero vogliono gli egiziani: un nuovo rapporto con la Palestina e una leadership politica che sappia rappresentare l’opinione prevalente. Dobbiamo aspettarci che in futuro questo sarà un test molto delicato per chiunque governerà l’Egitto.