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Strauss-Kahn: la fine simbolica di un’era

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La caduta di Strauss-Kahn è la fine simbolica di un’era per lo status dell’Europa nel mondo. È molto probabile che una donna francese, Christine Lagarde, sia considerata la persona più adatta per rimediare a uno scandalo gallico in terra americana. È quasi certo, insomma, che la guida del FMI resterà per ora in mani europee.

Ma se guardiamo al dibattito suscitato dal caso Strauss-Kahn negli Stati Uniti e in Asia, l’impressione è che il giudizio di una Corte di New York verrà usato non contro un uomo soltanto ma contro ciò che ha rappresentato fin qui: l’influenza internazionale del vecchio continente.

Dalla metà del secolo scorso in poi, Stati Uniti ed Europa hanno guidato, rispettivamente, la Banca mondiale e il Fondo monetario. Quest’assetto, immaginato dopo la seconda guerra mondiale come cardine del sistema economico atlantico, non riflette da tempo gli equilibri di un mondo spostato verso il Pacifico. Per paesi come la Cina o l’India, continua infatti a conferire un peso eccessivo all’Europa, a svantaggio delle economie emergenti. Non solo. Che la guida del Fondo spetti agli europei è posto ormai in discussione anche dagli Stati Uniti. Il disprezzo con cui Washington ha chiesto e ottenuto le dimissioni di Strauss-Kahn tradisce l’insofferenza diffusa per un continente vecchio, troppo frammentato e in genere di poco aiuto. Si sta formando così una sorta di coalizione degli insoddisfatti: una coalizione unita sul principio che il peso degli europei nelle istituzioni internazionali sia un’anomalia storica da superare. Ma ancora poco in grado di esprimere candidature unitarie.

Il problema è che l’Europa offre vari pretesti a tesi del genere. Dopo avere evocato per anni un “multilateralismo efficace”, con la riforma delle istituzioni di Bretton Woods, il vecchio continente finisce in realtà per difendere lo status quo. Al di là di una revisione parziale delle quote e dei diritti di voto nel FMI – approvata lo scorso anno e non ancora in vigore – l’Europa non sembra disposta ad andare. Per due ragioni molto semplici. La prima è che l’assetto ereditato dal secolo scorso continua a convenirle, proprio perché ne sovrastima le posizioni. La seconda è che qualunque riforma seria delle istituzioni internazionali richiede una razionalizzazione della presenza degli europei. E cioè una diminuzione dei pesi nazionali in cambio di un’influenza complessiva: un trade-off che i paesi grandi dell’UE non sono disposti a contemplare e di cui quelli piccoli non si fidano. Lo conferma il dibattito ricorrente sulla riforma del Consiglio di sicurezza, con le divisioni fra la Germania – che rivendica un proprio seggio nazionale permanente – e il vasto fronte mobilitato dall’Italia, favorevole a un aumento dei soli membri non permanenti e in prospettiva a seggi regionali, fra cui un seggio UE.

Questo sfondo spiega perché il caso Strauss-Kahn venga visto come un’occasione possibile – dal partito degli euro-critici su entrambi i lati del Pacifico – per contestare vizi e difetti della rendita di posizione europea. E per cominciare a liberarsene.

Qui entra in gioco, tuttavia, il peso della crisi greca, o più largamente della periferia dell’euro. Dal 2009 in poi, il Fondo monetario si è in effetti quasi trasformato in un’Agenzia di salvataggio degli anelli deboli dell’euro, in accordo con la BCE e i governi nazionali. Ciò significa che, come europei, siamo ormai parte integrante del problema e non solo della sua soluzione. In teoria, una condizione del genere delegittima ulteriormente la guida europea del Fondo. Nei fatti, la rende necessaria ancora per qualche tempo: perché – questo l’argomento che prevale a Washington – una guida europea avrà maggiori capacità di gestire quella che è vista come una crisi potenzialmente sistemica, con effetti globali. In sostanza: è la vulnerabilità dell’Europa ad aumentarne in questa fase il peso contrattuale. E a “trattenere” l’America: l’opzione di Tim Geithner, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, sembra essere quella di avallare una candidatura europea di cui Washington si possa fidare. Come appunto Christine Lagarde. Del resto gli europei – che detengono ancora il 32% delle quote del FMI– sarebbero nella posizione di bloccare candidature asiatiche. In altri termini: uno spostamento degli Stati Uniti su una candidatura extra-europea è poco probabile. Per ora.

In un momento già delicato per i rapporti transatlantici, con un presidente americano proiettato verso l’Asia, la ricetta difensiva europea per salvaguardare l’influenza internazionale dell’UE non potrà durare ancora a lungo. La ricetta della “debolezza come forza” sta esaurendosi, anche nel campo della sicurezza: il dibattito americano sulla Libia, con le polemiche ricorrenti sull’aiuto all’Europa perfino nel proprio cortile di casa, lo dimostra.

Se gli europei fossero disposti a fare i conti con la realtà, il campanello d’allarme del caso Strauss-Kahn servirebbe a qualcosa. Le rendite di posizione ereditate dal secolo scorso sono agli sgoccioli. Non è affatto chiaro in che modo i paesi europei potranno restare uno dei principali blocchi economici al mondo se non sapranno ripensare le forme di un’influenza politica collettiva. Ma mentre sulla difesa del passato c’è coesione, sulla conquista del futuro ce ne è assai di meno.

La tentazione del paese chiave del vecchio continente, una Germania rafforzata dal “miracolo economico”,  è di immaginarsi quasi come nuovo paese emergente sul piano nazionale, una sorta di BRIC europeo: la richiesta di un seggio alle Nazioni Unite, insieme a India e Brasile, è appunto simbolo di questo modo di pensare, per cui la Germania, da paese sconfitto nella seconda guerra mondiale, diventa uno dei vincitori del secolo attuale. A prescidere dall’Europa e dai suoi vincoli. È una scommessa difficile da vincere per la Germania; e perdente per l’UE nel suo insieme.