A quasi sei anni dall’adozione del “pacchetto clima” che introduceva obiettivi vincolanti per le fonti rinnovabili al 2020 e di riduzione della CO2, e a quattro dall’adozione del regolamento sulla sicurezza di approvvigionamento di gas, l’UE si ritrova nuovamente a discutere del proprio futuro energetico. Il combinarsi di vari fattori richiede una risposta forte da parte dell’UE: la crisi russo-ucraina, le tensioni mediorientali ed in Nord Africa, lo sviluppo dello shale gas in America, e sullo sfondo i ben noti problemi di competitività delle imprese europee.
All’inizio dell’anno la Commissione Europea ha rilasciato una comunicazione nella quale proponeva entro il 2030 di ridurre del 40% le emissioni CO2, aumentare l’utilizzo delle energie rinnovabili del 27% e migliorare l’efficienza energetica del 30%.
Mentre il target del 40% di riduzione della CO2 ha trovato un generale appoggio da parte dei settori industriali, i quali hanno già investito notevoli capitali per la riduzione delle proprie emissioni, il target per le rinnovabili non ha ottenuto il medesimo sostegno. Molte aziende sono infatti preoccupate di come un target così ambizioso al 2030 possa ulteriormente limitare la loro competitività, visto che i maggiori costi delle fonti verdi sarebbero fatti ricadere sui consumatori finali – già in una fase prolungata di sofferenza. Inoltre, alcuni governi avanzano dei dubbi sulla reale sostenibilità di tale obiettivo viste le difficoltà nel reperire i fondi per finanziare i meccanismi di incentivazione. Si pensi che solo in Italia ogni anno le energie rinnovabili ricevono oltre 12 miliardi di euro in sussidi, cifra che diverrebbe di gran lunga superiore in caso di un nuovo target.
In contemporanea, lo sviluppo dello shale gas in nord-America ha ridotto drasticamente la domanda di carbone negli USA e conseguentemente il suo prezzo. A causa della persistente crisi economica europea, i settori industriali hanno in ogni caso emesso molta meno CO2 causando un crollo nel prezzo delle quote di emissione ETS (Emissions Trading Scheme). Questo fenomeno, associato al crollo nel prezzo del carbone nordamericano, ha portato diversi operatori europei a rilanciare l’utilizzo di carbone nelle centrali elettriche, sostituendolo alle centrali a gas. L’effetto tendenziale, e in questa fase anche paradossale – è quello di aumentare le emissioni di CO2 in ambito UE, a dispetto degli sforzi (e dei costi in termini di competitività) delle politiche sul cambiamento climatico. Questo è particolarmente vero per la Germania, che ha registrato appunto un aumento delle proprie emissioni nell’ultimo anno.
Al tempo stesso, il livello complessivamente basso dei consumi a livello UE (con alcuni paesi membri che registrano un calo tuttora in corso) crea sempre più difficoltà per gli operatori: tendono a ridursi gli investimenti in nuove infrastrutture, e viene messo perfino in dubbio il mantenimento in attività delle centrali che garantiscono il base load (la produzione di elettricità a un tasso costante e costi relativamente bassi). Questo è particolarmente vero per le centrali che utilizzano fonti fossili o nucleari.
Proprio sugli impianti che garantiscono il base load vi è stato un importante braccio di ferro negli ultimi due anni fra il governo britannico e la Commissione Europea: Londra aveva infatti adottato un meccanismo che garantiva una particolare remunerazione per gli operatori di tali centrali al fine di garantirne il mantenimento in attività ed ovviare a possibili crisi o black out temporanei. Questo meccanismo, ancora sotto esame da parte della Commissione, potrebbe rientrare nella fattispecie degli aiuti di stato e pertanto essere in violazione dei trattati UE.
La crisi ucraina ha ora riportato al centro dell’attenzione l’intera questione della sicurezza delle forniture: l’UE importa infatti circa il 53% del proprio fabbisogno energetico, con una spesa giornaliera di circa un miliardo. Il transito attraverso l’Ucraina rappresenta oggi il 15% di tutto il gas che proviene dalla Russia.
La grave crisi in atto ha portato i governi UE a chiedere alla Commissione Europea di sviluppare una nuova strategia energetica per l’UE – pubblicata in effetti a fine maggio. In essa si propone una serie di misure, fra cui lo sviluppo di stress test che simulino un’interruzione nella fornitura di gas, per verificare la capacità dei diversi paesi di reagire. Oltre a rilanciare la realizzazione dei 33 progetti prioritari (infrastrutture di interconnessione per il gas e trasmissione elettrica, rigassificatori, etc.) finanziati dall’UE, la Commissione poi propone di rivedere entro fine anno il regolamento sulla sicurezza per l’approvvigionamento di gas. In particolare Bruxelles vorrebbe introdurre misure più ferree circa lo sviluppo e il mantenimento di siti di stoccaccio per il gas (i quali però hanno elevati costi di gestione e per questo tendenzialmente sono invisi ai gruppi energetici).
Nel testo la Commissione riconosce l’importanza delle risorse di gas e petrolio presenti ed inesplorate all’interno dei confini della UE, senza però proporre alcuna misura concreta. Propone intanto di ridurre l’elevata dipendenza delle centrali nucleari europee dalle forniture russe di combustile e rilanciare il vecchio progetto, proposto originariamente nel 2008 dall’allora Commissario all’energia lettone Piebalgs, di costituire un consorzio/meccanismo europeo di imprese che aggreghi la domanda di gas per aumentare il loro potere negoziale con i paesi (non UE) e gruppi fornitori.
Tutte queste misure sono state discusse al Consiglio Europeo di fine giugno, nel quale i capi di governo al di là di alcune riflessioni ed inviti non hanno preso decisioni definitive, rinviando di fatto il tutto al Consiglio Europeo di ottobre, nel quale si dovrà deliberare sulla proposta in merito agli obiettivi al 2030.
Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro come l’UE debba cambiare passo e prendere delle decisioni che quasi certamente creeranno non poche divergenze. L’Agenda al 2030, con i suoi obiettivi ambiziosi per le rinnovabili, andrà di fatto contro il volere delle imprese europee già colpite (per varie ragioni) dai maggiori costi energetici. Il rilancio del carbone, che sta di fatto entrando in concorrenza con il gas, pone non pochi interrogativi circa le politiche per il cambiamento climatico. Invece di formulare target eccessivamente ambiziosi sarebbe a questo punto opportuno focalizzare gli sforzi sulle fonti rinnovabili più mature, concentrando su di esse i meccanismi di incentivazione.
Sebbene diversi analisti continuino a proporre la sostituzione del meccanismo ETS con una carbon tax, la sua introduzione è di fatto fuori discussione. Già a metà anni Novanta gli Stati membri la rifiutarono poiché essa avrebbe richiesto che la fiscalità divenisse competenza condivisa con Bruxelles, riducendo una degli ultimi ambiti sovranità ancora in mano agli esecutivi nazionali. È pertanto impossibile immaginare una carbon tax a livello UE nel breve periodo poiché ciò richiederebbe la revisione dei trattati UE.
I veti nazionali sullo sviluppo dello shale gas, la crisi ucraina e l’elevata dipendenza europea sia per le forniture di gas che per quelle di uranio, pongono oggi ulteriori dubbi sulla linea seguita dalla UE negli ultimi anni.
Nel breve termine, le misure proposte circa maggiori siti di stoccaggio per il gas, l’accelerazione sullo sviluppo di nuovi rigassificatori e infrastrutture di interconnessione, possono ovviare alle criticità strutturali delle politiche europee. Tuttavia, nel più lungo periodo, l’UE potrà ridurre la propria dipendenza dalla Russia solo attraverso una maggiore efficienza energetica, lo sviluppo delle risorse inesplorate (sia shale gas che idrocarburi convenzionali) e una maggiore diversificazione delle forniture, sia in senso geografico sia per tipo di fonti.