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Le regole bancarie: l’Europa e gli altri

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Sono serviti degli anni perché gli impegni assunti dai paesi del G20 – “paradisi fiscali, è finita!”, esclamava Nicolas Sarkozy alla fine di un vertice nel 2008 – ad agire contro stati e territori caratterizzati da regole fiscali opache o inesistenti si trasformassero in fatti concreti. L’Unione Europea si è unita alla tendenza internazionale, guidata da Oltreoceano, alla reregulation fiscale: Bruxelles non è più disposta, come in passato, a tollerare all’interno dei suoi stessi confini grandi disparità in materia di imposte o finanza.

I principali stati del vecchio continente, infatti, hanno deciso che entro la fine dell’anno il segreto bancario dovrà essere bandito dall’UE – è ancora vigente in due paesi membri: Lussemburgo e Austria, ai primi posti nell’indice di opacità finanziaria annualmente pubblicato dal Tax Justice Network. Inoltre, ogni tolleranza o complicità con i paradisi fiscali – con i quali i paesi europei mantengono rapporti finanziari, politici e amministrativi – dovrà cessare. Alla base della svolta, più che il trionfo del principio di equità, la crisi economica internazionale, gli “scandali” emersi negli ultimi anni e il mutato atteggiamento degli Stati Uniti.

È proprio la pressione esercitata dal FACTA (Foreign Account Tax Compliance Act, legge che impone alle banche straniere di trasmettere automaticamente a Washington le informazioni su aperture e movimenti contabili, redditi e rendite, compiuti, detenuti e percepiti dai cittadini americani) ad aver scardinato il fronte del mantenimento del segreto bancario in Europa. La legge è stata adottata nel 2010, sull’onda delle rivelazioni sulle operazioni in paradisi fiscali di istituti finanziari falliti o salvati dall’intervento pubblico; entrerà in vigore all’inizio del 2014, accompagnata da una serie di accordi internazionali.

Oltre alla Svizzera, in Europa gli Stati Uniti hanno piegato le resistenze del Lussemburgo, paese in cui gli attivi bancari ammontano a venti volte la ricchezza prodotta. Nel solo 2012, capitali stranieri per 2.200 miliardi sono entrati nel Granducato. Il primo ministro Jean-Claude Juncker ha finito per accettare il principio dello scambio automatico di informazioni per i cittadini americani sia perché il Lussemburgo e le sue banche sono risultati coinvolti nel miliardario giro di evasione fiscale e riciclaggio scoperto grazie alle rivelazioni di offshore leaks, sia per il pericolo di perdere l’accesso al principale mercato finanziario internazionale: il Tesoro americano ha minacciato di escludere da Wall Street le società con sede in paesi che non accettassero l’accordo sulla trasparenza.

L’obiettivo di partenza dell’Unione Europea è più modesto di quanto previsto dal FACTA, eppure in questi anni non si è riusciti a raggiungerlo. Il tema è disciplinato da una direttiva del 2005, anch’essa basata sul principio dello scambio automatico di informazioni, ma su un numero ristretto di prodotti finanziari, e limitatamente ai conti intestati a persone fisiche. Lussemburgo e Austria si erano comunque rifiutati di applicarla, ottenendo una deroga. Tre anni dopo, i due paesi opponevano il veto a un allargamento della direttiva ad altri prodotti finanziari come le assicurazioni sulla vita.

In effetti, Washington non si è limitata alla pressione per la chiusura di accordi bilaterali: gli Stati Uniti vogliono estendere a tutti i paesi del G20 le regole del FACTA, perché cittadini e società americani non siano penalizzati dal rispetto di regole più rigide. Dunque, anche il Regno Unito – stato a cui formalmente appartengono moltissimi dei paradisi fiscali offshore – ha acconsentito al cambiamento delle regole europee.

Date queste premesse, la strategia europea si è fatta più ambiziosa: l’UE punta ora ad approvare entro l’anno una nuova direttiva interamente basata sui principi della legge americana, e già anticipata da una collaborazione tra le amministrazioni tedesche, francesi, britanniche, italiane e spagnole. In tempi di vacche magre e bilanci pubblici in profondo rosso, i grandi stati non disdegnerebbero di recuperare almeno una parte dei 1000 miliardi annualmente evasi in Europa: una cifra simile all’ammontare dell’intero bilancio comunitario 2014-2020 e cento volte più grande di quella spesa per salvare Cipro dalla bancarotta.

Questa unanimità tra i grossi calibri dell’Unione ha buone possibilità di scalfire la posizione del Lussemburgo (la contrarietà di un solo membro impedirebbe l’adozione della nuova direttiva), dato l’accordo raggiunto dal Granducato con gli USA. Al contrario, l’Austria sembra tutt’altro che disposta a rinunciare al proprio segreto bancario.

Vienna non è coinvolta dai negoziati con Washington. I circa 60 miliardi di provenienza estera custoditi nelle banche austriache, infatti, arrivano soprattutto da Germania, Russia ed Europa orientale: si tratta di una cifra doppia rispetto a dieci anni fa. Circa il 10% di questo denaro, secondo stime prudenti, è legato ad attività criminali; la sua segretezza è protetta da una legge di rango costituzionale. Grazie alla deroga sulla direttiva europea, le autorità dei paesi UE non dispongono di informazioni automatiche sui conti, tranne casi eccezionali come l’ordine di un tribunale. Ma anche in questi casi, l’accesso non è certo: recentemente, il tribunale di Stoccarda, con una rogatoria internazionale, ha chiesto informazioni a proposito delle disponibilità contabili di una coppia di presunte spie russe di stanza in Germania ma di cittadinanza austriaca. Le autorità locali hanno rifiutato di fornire qualsiasi dato sui loro conti correnti, con la motivazione che lo spionaggio in terra tedesca non è un reato riconosciuto in Austria.

Le elezioni politiche che si terranno in settembre nel paese, ora retto da una grande coalizione tra socialdemocratici e conservatori, contribuiscono a irrigidire la posizione dell’Austria. La parziale disponibilità della sinistra di governo (il cancelliere Werner Faymann si è detto disposto a trattare, mentre il suo partito è favorevole a un referendum sul tema) non è condivisa dalle altre forze. La ministra delle Finanze Maria Fekter, del partito popolare (ÖVP), ha dichiarato che si batterà “come una leonessa” contro l’abolizione del segreto bancario: a determinare questo atteggiamento, non solo la vicinanza dell’ÖVP con il mondo della finanza, ma anche la concorrenza elettorale degli agguerriti partiti populisti e nazionalisti che occupano la destra dello schieramento politico e che vogliono giocare la campagna elettorale sul tema della “svendita del paese a Bruxelles”. L’intransigenza viene argomentata con la minaccia alla privacy del “libretto di risparmio della nonna”, ma anche con il più serio pericolo di indebolire la florida economia locale.

L’Austria rischia così di trasformarsi nell’ultima ridotta europea del segreto bancario. Vienna condiziona l’apertura delle trattative alla firma di accordi paralleli con aree extra-UE come il Principato di Monaco, Andorra, San Marino, Lichtenstein e Svizzera; tuttavia, se l’Unione non raggiunge prima l’unanimità interna, difficilmente avrà la forza di convincere questi stati a rendere più trasparenti le pareti delle proprie casseforti.

Il fronte degli altri membri dell’UE, per il momento, sembra reggere: la Francia di Hollande, ancora scossa dall’affaire Cahuzac (il ministro del Bilancio costretto a dimettersi perché accusato di riciclaggio attraverso un conto in Svizzera), vuole mostrare determinazione, e ha minacciato di inserire l’Austria nella liste noire dei paesi amici degli evasori fiscali, accanto a Stati come Botswana e Isole Marshall. La Germania, da parte sua, avrebbe l’occasione di interrompere il flusso crescente di capitali in uscita dai suoi confini meridionali; il ministro delle Finanze Schäuble ha garantito che Berlino si impegnerà fino in fondo. Il braccio di ferro, che metterà alla prova la coesione europea su una materia delicata come fisco e finanza, durerà fino alla fine dell’anno.