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Quale futuro per la politica europea di riduzione delle emissioni nocive?

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Con il voto negativo sull’Emission Trading Scheme (ETS) di metà aprile, il Parlamento europeo ha drasticamente rimesso in discussione le politiche dell’UE circa la riduzione dei gas serra. Il conseguente crollo nel prezzo dell’EUA – cioè le quote di emissioni di CO2 scambiabili sul mercato – non solo indebolisce la posizione europea nei già difficili negoziati internazionali, ma crea anche una serie di problemi interni.

Se infatti, da un lato, i governi nazionali temono seriamente che il loro gettito fiscale diminuisca a causa del minore prezzo a cui si venderanno le EUA all’asta, dall’altro nell’industria regna l’incertezza, per paura che ciascun paese europeo adotti misure differenti nel tentativo di rialzarne il prezzo.

Il 16 aprile gli eurodeputati hanno rifiutato, seppure con una maggioranza risicata (334 a 315), la proposta della Commissione di ritardare dal 2013 al 2017-2019 la messa all’asta di EUA per 900 milioni di tonnellate di CO2. Questa misura mirava a risollevare il prezzo delle quote di emissione, che già era diminuito dai 25 euro per tonnellata del 2008 – anno in cui venne approvato il pacchetto clima e l’obbligo per l’UE di ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 rispetto ai valori del 1990 – a circa 7 euro.

L’ETS prevede per l’UE un quantitativo totale di CO2 da emettere pari a circa 16 miliardi di tonnellate per il periodo 2013-2020. La decisione di ritardare la messa all’asta di 900 milioni, poco più del 5% del totale, avrebbe a detta della Commissione garantito un rialzo del prezzo. Vi sarebbe stata infatti una maggiore domanda per accaparrarsi le quote di emissioni, disponibili per un periodo di tre anni invece che di sette.

Saltato questo programma, il prezzo delle quote è sceso ancora rovinosamente subito dopo il voto del Parlamento. La crisi economica che ha comportato un crollo negli ordinativi, e conseguentemente anche nei consumi industriali, e una lista probabilmente troppo ampia di settori esentati dall’obbligo di acquisto di EUA, sono gli elementi che già influivano sulla sua diminuzione. Basti pensare che molte banche d’affari hanno smantellato o quasi i loro carbon trading department perché non convinte della sostenibilità di lungo periodo del meccanismo. Ora si dubita effettivamente della cui stessa sopravvivenza.

Un prezzo così basso delle EUA non incentiva le industrie a maggior impatto ambientale a investire in tecnologie più efficienti: inquinare, dato il risibile peso sui bilanci della spesa per le quote di CO2, è più vantaggioso. Non pochi analisti stimavano infatti che per raggiungere gli obiettivi UE al 2020, il prezzo delle quote non sarebbe dovuto essere inferiore ai 20 euro (oggi è 3,4 euro): in tal modo, investire su processi industriali che riducano le emissioni sarebbe conveniente. Al contrario, lo smantellamento delle centrali a carbone a favore di quelle a gas attualmente in corso nel settore elettrico potrebbe essere drasticamente rallentato dal tracollo del prezzo delle EUA.

A questo si deve aggiungere la preoccupazione per i governi in merito al gettito fiscale atteso dalla vendita delle EUA. Sebbene nessuno immaginasse una cifra superiore ai 15-20 euro, il prezzo odierno potrebbe lasciare gli stati senza adeguate risorse per alcune importanti linee di spesa. Un caso lampante è rappresentato dagli incentivi per le energie rinnovabili. Se la congiuntura, il crollo nei consumi elettrici e i piani di austerità avevano già portato molti esecutivi a tagliarli, la crisi dell’ETS – che prevedeva una percentuale degli introiti delle aste destinati a sostenere la produzione verde – non può che portare a una loro ulteriore riduzione.

Di pari passo con le questioni interne, l’UE deve affrontare le conseguenze del voto sulla sua politica energetica internazionale. Bruxelles ha da sempre tenuto la leadership mondiale nella lotta al cambiamento climatico, introducendo per prima obiettivi vincolanti per la riduzione di CO2 e battendosi per estendere questi obblighi a livello internazionale.

Nel tentativo di portare dalla sua i paesi con economie emergenti (BRICs in primis) la Commissione europea aveva anche sostenuto la creazione di un fondo per il trasferimento di tecnologie “a basso carbonio” dai paesi maggiormente sviluppati. Tuttavia, la posizione dell’UE ha finito per indebolirsi per la costante contrarietà del Congresso americano alla ratifica del protocollo di Kyoto o di qualsiasi piano per la riduzione dei gas serra prima che i paesi emergenti compiessero lo stesso passo, unita al contemporaneo rifiuto di stati come Russia e Cina.

Prova ne è il fallimento del summit di Copenaghen del dicembre 2008, ove l’UE fu addirittura esclusa dal tentativo di negoziato finale in cui partecipò Barack Obama in rappresentanza del “gruppo occidentale”. Le seguenti conferenze internazionali (Durban, Doha, ecc.) hanno visto l’UE sempre più isolata, sostenuta solo da alcuni paesi africani e del Pacifico – indicati come quelli maggiormente a rischio per il cambiamento climatico.

Ciononostante, un certo numero di governi, come Australia, Giappone, e Corea del Sud (oltre alla California, a prescindere dalle posizioni del governo federale americano) ha deciso di introdurre meccanismi paragonabili all’ETS europeo con l’intenzione di collegarli per creare un mercato mondiale delle quote di emissione. Una tale scelta è soprattutto riconducibile all’interesse dei gruppi economici locali per un nuovo mercato – quello della compravendita di quote – che poteva avere sviluppi promettenti. Il voto del Parlamento europeo indebolirà questo interesse. Inoltre, l’incertezza ed il prezzo eccessivamente basso presente nel mercato europeo – di gran lunga il più importante – condizioneranno ulteriormente la credibilità dell’UE nei futuri negoziati.

In questa situazione di stallo a livello internazionale, torna alla ribalta l’approccio basato sull’introduzione di una carbon tax di importo fisso per ogni tonnellata di CO2 emessa. Questa garantirebbe certezza al settore privato, nessuna fluttuazione dei prezzi, ed eviterebbe gli oneri amministrativi e il complesso apparato amministrativo necessario all’ETS.

I fautori della carbon tax sottolineano anche come questa eviterebbe la possibile uscita di capitali dall’UE. Infatti, è vero che collegare infatti meccanismi ETS presenti nelle diverse aree del mondo permetterebbe agli operatori di comprare quote nei mercati ove il prezzo è più conveniente, equilibrando i prezzi; in assenza però di un level playing field (regole comuni per tutti) è facile prevedere che paesi con ETS a obiettivi vincolanti, come quelli europei, sarebbero caratterizzati da prezzi delle quote decisamente superiori rispetto a quelli senza vincoli. Nei paesi dove governi e industrie non fossero obbligati a diminuire le emissioni, la domanda per le quote sarebbe molto minore e i prezzi resterebbero bassissimi, attirando compratori e capitali dall’Europa. Un problema che non esisterebbe con una tassa fissa.

Sebbene la carbon tax sembri una misura molto più facile da negoziare, l’UE non si può permettere di rigettare ora l’ETS per adottarla. Un tale cambiamento non solo causerebbe una perdita totale di credibilità a livello internazionale, ma lascerebbe ancor più nell’incertezza gli operatori europei.

La proposta di ritardare la messa all’asta dei 900 milioni di quote è ora di nuovo al vaglio della commissione parlamentare ambiente; appare però difficile che gli eurodeputati cambino idea e l’approvino. Questo spinge i paesi membri, timorosi di perdere gettito fiscale dalle aste, ad adottare misure nazionali per aumentare i prezzi delle EUA. I governi hanno un certo grado di autonomia per decidere di dilatare la frequenza delle aste o ridurre i quantitativi di quote vendute nelle prime con l’intenzione di alzarne il prezzo nel breve periodo.

Tali misure dovrebbero evitare eccessive differenze fra paesi, per garantire la presenza di un funzionale mercato unico. Tuttavia, potrebbero avere successo: è un caso in cui la soluzione per l’UE può venire dalle capitali dei paesi membri e non da Bruxelles.