La periferia dell’eurozona è irrimediabilmente invischiata in un circolo vizioso tra recessione e austerità, e rischia di trascinare con sé il resto del continente, per il quale la Commissione europea prevede crescita negativa (-0.3%) nel 2013. Anche prendendo per buone le stime della Commissione, che in passato ha sistematicamente dato prova di eccessivo ottimismo, l’eurozona non ritroverà il livello di output del 2008 prima del 2015-16. Gli effetti dell’austerità sulle economie europee hanno colto di sorpresa un certo numero di commentatori, e hanno rilanciato il dibattito sulla dimensione dei cosiddetti “moltiplicatori fiscali”.
Questo tipo di moltiplicatore misura come una variazione del deficit pubblico, attraverso una variazione della domanda, ha effetto sul Prodotto Interno Lordo (PIL). Esso può essere elevato se la spesa pubblica o la riduzione delle tasse (fattori di aumento del deficit) provocano una crescita della spesa – mediante l’aumento dell’occupazione e del potere d’acquisto del settore privato, cioè di famiglie e imprese, che spenderanno di più. In tal caso, ogni euro speso dal pubblico condurrà ad un aumento della ricchezza prodotta di più di un euro. Tuttavia esso può essere inferiore a uno se la spesa pubblica non va ad aggiungersi a quella privata ma a sostituirla – il cosiddetto effetto spiazzamento, o crowding out. In casi estremi il moltiplicatore può essere negativo: ciò accade quando l’aumento di spesa pubblica riduce più che proporzionalmente la spesa privata, riducendo quindi il PIL.
Un altro fattore importante nel determinare il valore del moltiplicatore è il livello di apertura dell’economia. Se una gran parte del reddito di un paese è speso in beni prodotti all’estero, uno stimolo della domanda avrà effetti positivi sul reddito dei partner commerciali, e non beneficierà la produzione interna. Il moltiplicatore sarà quindi poco elevato. A sua volta, il deficit pubblico è influenzato dal PIL: durante periodi di bassa crescita diminuiscono le entrate fiscali e sale la spesa sociale (per esempio per i sussidi di disoccupazione), aumentando il deficit.
Misurare con accuratezza questa doppia relazione è importantissimo. Se il moltiplicatore è elevato (siamo dunque in una situazione in cui la spesa pubblica influisce positivamente sul PIL), contenere la spesa dello stato avrà un effetto recessivo importante. E la recessione può a sua volta avere un impatto molto negativo sul deficit, se questo è molto sensibile al ciclo economico. La politica di austerità, in questi casi, può essere non solo recessiva, ma controproducente.
Prima della crisi, i grandi istituti internazionali (OCSE, FMI, BCE, Commissione europea), tradizionalmente scettici sul ruolo dell’intervento pubblico in economia, si accordavano su un valore del moltiplicatore abbastanza basso, intorno a 0,5. Dunque, una riduzione del deficit di un punto percentuale avrebbe comportato una riduzione del PIL di appena mezzo punto, tutto sommato accettabile. I piani di salvataggio per i paesi in difficoltà (Grecia, Irlanda, Portogallo) si basavano su queste stime: per quanto draconiana, l’austerità avrebbe provocato al più una blanda recessione, e comunque avrebbe rimesso in sesto le finanze pubbliche, così stimolando la domanda privata e la crescita.
Non è andata così. Il valore del moltiplicatore dipende da una serie di fattori che i modelli utilizzati dalle grandi istituzioni economiche tendono a sottostimare, in maniera particolare durante le crisi. Per fare due esempi, se i tassi di interesse della Banca centrale sono già molto bassi – come nel caso europeo – essa non può attenuare gli effetti recessivi della restrizione fiscale con un’espansione monetaria (il cosiddetto zero lower bound). E se anche i partner commerciali di un paese mettono in atto politiche restrittive, il calo della domanda interna non può essere compensato da un aumento delle esportazioni. Non è un caso che proprio esportazioni e tassi di interesse siano alla base degli episodi di “restrizioni fiscali espansive” che per anni gli alfieri dell’austerità hanno portato a sostegno delle proprie tesi.
Negli ultimi mesi si sono intensificati gli sforzi dei ricercatori per ovviare alla flagrante discrasia tra le stime su cui si basano i piani di austerità, e la recessione nella quale sono piombati i paesi che li hanno applicati (si veda ad esempio il recente lavoro di Olivier Blanchard e Daniel Leigh del Fondo monetario internazionale). Questa ricerca ha portato ad alcuni nuovi risultati, e ha riproposto vecchie verità. In primo luogo, il moltiplicatore è più alto in tempo di crisi, quando il settore privato riduce la propria spesa (perché cerca di ridurre il proprio indebitamento, o perché ha difficoltà a contrarre prestiti), e quando la politica monetaria non è efficace. In secondo luogo, un’austerità basata su tagli di spesa è più recessiva di una basata su un aumento dell’imposizione fiscale. In tempi normali sarebbe vero il contrario, perché un aumento delle tasse disincentiverebbe l’offerta di lavoro; ma durante le crisi è la domanda di lavoro ad essere carente: gli effetti disincentivanti delle maggiori imposte non sono quindi rilevanti. Inoltre, in periodi di crisi, la spesa privata risponde più all’incertezza e ai livelli di debito che al livello di imposizione.
Se i moltiplicatori in questo periodo di crisi sono significativamente più alti di quanto non si credesse in precedenza, dovremmo trarne alcune lezioni per la malconcia economia europea. Da un lato, sarebbe saggio attenuare gli effetti dell’austerità spalmando il consolidamento su un periodo più lungo. Anche il FMI ha recentemente raccomandato più gradualismo. Dall’altro, la necessaria austerità nei paesi della periferia dovrebbe essere accompagnata da un’espansione nei paesi del centro, in particolare la Germania. Giova ricordare che la zona euro, che nel suo insieme è in recessione e ha bisogno di rilancio, ha debito e deficit inferiori rispetto alle altre grandi economie. Infine, almeno in questa fase, l’aumento delle imposte dovrebbe essere preferito alla riduzione della spesa, oggi necessaria per sostenere l’attività economica. La razionalizzazione della spesa pubblica, e la sua riduzione, dovrebbero aspettare tempi migliori.
Ai partigiani dell’austerità rimane un solo argomento, a dire il vero non trascurabile: anche se questa fosse più dannosa di quanto credessimo, non abbiamo alternative, perché i mercati punirebbero con un aumento degli spread qualunque governo che si mostrasse restio al consolidamento fiscale. Ma anche questo argomento non è poi così solido. Bisogna considerare intanto che i mercati sono sensibili alla crescita, almeno quanto lo sono alla salute delle finanze pubbliche. Inoltre, il potere dei mercati sui governi deriva in gran parte da un’altra anomalia tutta europea: siamo l’unica grande economia la cui banca centrale non può agire da prestatore di ultima istanza, assicurando il debito pubblico dal rischio di default. Non è con un’austerità dannosa e controproducente che si metterà fine a questa anomalia.
Questo articolo riprende ed espande un editoriale apparso sul Sole 24 Ore del 27/4/2013.