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Le nuove sanzioni contro l’Iran: la svolta possibile?

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Nonostante le continue pressioni della comunità internazionale, l’Iran non ha finora alterato la sua politica nucleare; ora qualcosa potrebbe cambiare a causa delle più recenti sanzioni applicate da Stati Uniti e Unione Europea, che sembrano in grado di mettere in seria difficoltà Teheran. Gli ultimi tre incontri con l’Iran del 5+1 (che riunisce Cina, Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito più Germania) a Istanbul, Baghdad e Mosca, non hanno fatto registrare progressi. La comunità internazionale continua a chiedere alla Repubblica islamica di interrompere il suo programma nucleare e di non raggiungere la soglia di arricchimento dell’uranio del 20% (cruciale per poi poter portare l’uranio fino al 90% e così produrre armi atomiche). Inoltre, ha chiesto di portare tutto il materiale fissile già arricchito al 20% all’estero, in un paese terzo. In cambio, visto che Teheran insiste che il nucleare sarà utilizzato solo per scopi civili e medici, verrebbero fornite tecnologie avanzate e combustibile per i reattori “pacifici”. L’Iran, invece, ha presentato un piano molto complesso che ha, come primo punto, il blocco delle sanzioni. Proprio le sanzioni potrebbero rappresentare l’arma in grado di far cambiare idea a Teheran.

Che la Repubblica islamica abbia incassato il colpo, lo si capisce anche dalle reazioni molto dure: “Abbiamo disposto i nostri missili in modo tale da distruggere le basi degli Stati Uniti nel Golfo e i territori occupati a pochi minuti da un eventuale attacco”. Queste le minacce pronunciate a mezzo stampa dal generale dell’aviazione iraniana Amir Ali Hajizadeh, secondo quanto riferito dall’agenzia semiufficiale Fars. Il riferimento della Guardia rivoluzionaria è a Israele e alle basi militari degli Stati Uniti nel Golfo persico, che secondo fonti del pentagono sono state rifornite nell’ultima settimana di nuovi aerei da combattimenti e navi militari.

Le dichiarazioni sono state fatte all’indomani delle esercitazioni militari svolte dall’Iran il 3 luglio, in cui le forze scelte delle Guardie rivoluzionarie hanno sparato missili a corto raggio, come gli Shahab-1 e Shahab-2, e a medio raggio, come gli Shahab-3 e i Sejil, che sarebbero in grado di percorrere fino a 1.200 miglia. Gli Stati Uniti hanno diverse basi nel Golfo persico e la Quinta flotta della marina, di stanza in Bahrein, dista solo 120 miglia. Israele, invece, si trova a 600 miglia da Teheran.

L’escalation di tensione è dovuta proprio all’entrata in vigore di quelle che, secondo lo stesso presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, sono le “sanzioni più dure mai imposte al paese”. Il ministro degli Esteri Ali Akbar Salesi ha precisato che esse sono “illegali e illegittime” e “non serviranno a farci fare marcia indietro sui nostri diritti [nucleari] e ci riportano a una situazione simile a quella della guerra con l’Iraq”.

Le sanzioni degli Stati Uniti, che non comprano petrolio dall’Iran, vietano alle banche di tutto il mondo di firmare “contratti petroliferi” con Teheran. La Repubblica islamica farà così molta più fatica a vendere sul mercato il suo greggio, visto che una petroliera carica di oro nero costa almeno 100 milioni di dollari ed è difficile concludere una simile transazione senza l’aiuto di una banca. Le sanzioni europee, invece, sono state annunciate già a gennaio (per entrare in vigore il 1° luglio) per dare tempo ai membri della UE di spostare le loro forniture di petrolio su altri produttori. Le sanzioni europee, infatti, prevedono l’embargo petrolifero totale. Oltre al divieto di importare greggio dall’Iran, è stato stabilito il divieto per le aziende di trasportare il petrolio iraniano e per le compagnie assicurative di assicurare le navi che lo trasportano. Le regole non valgono però per tutti: gli Stati Uniti hanno già annunciato che Cina, India, Giappone, Malesia, Repubblica coreana, Singapore, Sudafrica, Sri Lanka, Turchia e Taiwan potranno continuare a comprare petrolio dall’Iran a patto che riducano in modo significativo le loro importazioni.

In questo modo Stati Uniti e UE sperano di minare alla base l’economia iraniana, che si basa per l’80% sulle esportazioni di greggio. Fino all’anno scorso l’Iran estraeva circa 3,8 milioni di barili di petrolio al giorno. Dall’inizio dell’anno, a causa della crisi economica e della diminuzione della richiesta da parte di Europa e Stati Uniti e a causa dell’aumento della produzione da parte di Iraq, Libia e Arabia Saudita, il prezzo del petrolio è sceso e l’estrazione è diminuita a 2,8 milioni di barili al giorno. E secondo le stime, circa un milione di barili al giorno resta comunque invenduto. Dall’inizio dell’anno, infatti, i ricavi iraniani dalla vendita dell’oro nero sono scesi del 35%, pari a circa 10 miliardi di dollari in mancati guadagni. Le nuove sanzioni, secondo Washington, potrebbero togliere dal mercato un altro milione di barili al giorno, lasciando così l’Iran con una vendita di “soli” 800 mila barili al giorno.

Teheran ha annunciato ufficialmente che non ridurrà i livelli di estrazione del petrolio, anche se alcuni pozzi sono stati chiusi per manutenzione forzata. Intanto il problema dello stoccaggio si sta aggravando per l’Iran: il Kenya, ad esempio, ha dichiarato che rinuncerà ad importare 80 mila barili al giorno e anche la Corea del Sud, pur godendo dell’esenzione degli Stati Uniti, a maggio ha importato la metà del petrolio dall’Iran rispetto ad aprile. A fronte di questi sviluppi, il regime ha aumentato la costruzione di strutture per stoccare i barili e sta anche stivando le sue petroliere, che possono contenere centinaia di migliaia di barili l’una, con il greggio invenduto. Secondo gli esperti, nell’arco di tre mesi anche le petroliere saranno piene. Nonostante questo, il ministro degli Esteri ha dichiarato che “finché si immagina erroneamente che l’imposizione di sanzioni illegali e illegittime ci farà fare marcia indietro sui nostri diritti, un simile atteggiamento avrà sicuramente un impatto negativo sul successo” dei prossimi colloqui. Resta il fatto che l’economia iraniana è sempre più in crisi: il ministero del Tesoro ha autorizzato l’utilizzo del fondo da 35 miliardi di dollari tenuto da parte appunto per i momenti di crisi. Anche la minaccia di minare lo stretto di Hormuz, da cui passa un quinto del commercio petrolifero mondiale, è risultata sostanzialmente controproducente: gli Stati Uniti hanno reagito aumentando a otto il numero delle navi dragamine nel Golfo, oltre alle due portaerei presenti nella regione su cui sono schierati i caccia F-15C e F-22. Con le elezioni presidenziali alle porte, Barack Obama non vuole certo mettere a rischio il suo secondo mandato con una nuova guerra nel Golfo, ma per evitarla ritiene ormai di dover ricorrere a tutti gli strumenti a sua disposizione, compreso il dispiegamento delle soverchianti forze navali americane.