international analysis and commentary

Le forme variegate dell’anti-europeismo

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Il dato senza dubbio più eclatante della tornata elettorale europea è rappresentato dall’affermazione di forze anti-europeiste in due dei quattro principali Paesi dell’Unione: il Front National (FN) di Marine Le Pen in Francia e lo United Kingdom Independence Party (UKIP) di Nigel Farage nel Regno Unito.

Si tratta di partiti anti-europeisti nel senso più preciso dell’espressione, ovverosia di avversari dell’integrazione comunitaria in quanto tale. Entrambi vogliono che i rispettivi Paesi abbandonino l’UE, riconquistando le libertà nazionali che ora sarebbero sottratte dagli impersonali poteri di Bruxelles. La forza dirompente di tali movimenti sul piano continentale si riflette anche su quello interno: il FN può essere considerato estraneo all’arco costituzionale repubblicano francese, malgrado il suo radicamento ormai ventennale in moltissime amministrazioni municipali – soprattutto meridionali – e lo UKIP non ha mai partecipato ad alcuna competizione per la Camera dei comuni.

Il parallelismo, tuttavia, funziona solo in parte, dal momento che lo UKIP presenta un potenziale di integrazione nella scena democratica britannica maggiore rispetto al FN: se il gruppo di Farage può essere considerato – al limite – come un’ala estrema dei Tories, il FN deve ancora fare molta strada per potersi accreditare come una variante più di destra del classico conservatorismo repubblicano francese.

Il rifiuto dell’UE espresso dai vincitori del voto nel Regno Unito e in Francia può essere sommato ad analoga ostilità verso l’integrazione rappresentata da movimenti in qualche misura anti-sistema con un notevole seguito nei rispettivi paesi, e collocati talvolta ancora più a destra: Alba Dorata in Grecia (9,38%) e Jobbik in Ungheria (14,7%) sono senz’altro le più radicali e pericolose, perché uniscono all’attività politica legale forme di organizzazione di tipo paramilitare che, non a caso, sono oggetto dell’attenzione dei rispettivi sistemi giudiziari nazionali.

Senza giungere agli estremi ora citati, in tale ambito vanno annoverati anche il Partito del Popolo danese (prima forza del Paese con il 27% circa), la FPÖ austriaca che fu di Jörg Haider (terza forza, ma con un ragguardevole 19,7%), l’olandese Partito della Libertà di Geert Wilders (meno brillante del previsto, ma comunque a due cifre) e i Veri Finlandesi di Timo Soini (al 12,9%). Si tratta di forze simili nell’avversione all’UE, anche se ideologicamente non identiche: la combinazione fra idee economico-socali, antisemitismo, islamofobia, xenofobia e difesa dei cosiddetti “valori tradizionali” si presenta in forme variabili. Il partito di Wilders, ad esempio, è liberista in economia e difende come parte dell’identità olandese il rispetto per ebrei ed omosessuali, a differenza di movimenti ultras come Jobbik o più moderati come lo stesso FN di Marine Le Pen.

Merita un discorso a parte Alternative für Deutschland (AfD), “vincitore morale” delle elezioni in Germania con un significativo 7%. Tale partito, infatti, non è contrario all’integrazione europea, come i precedenti, ma alla moneta unica. Per i promotori della AfD l’introduzione dell’euro (“una decisione contro la ragionevolezza politica ed economica”, si legge nel loro programma) ha anzi danneggiato l’Unione, che – sostengono – rischia di distruggersi se non verrà posto rimedio a quell’“errore”. La contrarietà alla moneta unica porta con sé quella a tutte le misure adottate negli scorsi anni per fare fronte alla crisi economico-finanziaria, culminate con la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Nel mirino anche le scelte (per ora solo annunciate) della BCE in merito agli OMT, così come, più radicalmente, la governance della stessa banca guidata da Mario Draghi, giudicata sfavorevole agli interessi tedeschi.

Più in generale, la critica all’UE si attesta sul no al centralismo di Bruxelles e alla burocrazia, condito da richieste di sapore nazionalista come la parificazione totale del tedesco a inglese e francese come lingua di lavoro dell’Unione. Sul versante interno alla Repubblica federale, la AfD sembra poter ereditare senza particolari traumi il presidio delle idee liberiste lasciato ormai sguarnito da una FDP in grave crisi, pur attestandosi su posizioni maggiormente conservatrici sulle libertà civili (dall’aborto al matrimonio omosessuale): nulla che faccia di essa una forza realmente anti-sistema.

Se il voto a forze di questo genere rappresenta un forte segnale di rifiuto verso l’UE (con i dovuti distinguo nel caso della AfD), in parte anche il non-voto può essere considerato tale. Un rifiuto che assume una forma diversa, ma che non può non inquietare tutti coloro i quali hanno a cuore il futuro del progetto comunitario. L’astensione è stata, tuttavia, inferiore alle attese, invero piuttosto catastrofiste: il dato rispetto alla precedente tornata è rimasto sostanzialmente invariato. A partecipare è stato il 43,09% dei cittadini europei, risultato di un’affluenza molto alta in Paesi come Belgio e Lussemburgo (oltre il 90%) e molto bassa in Slovenia (20,9%), Repubblica ceca (19,5%) e Slovacchia (13%).

È lecito ipotizzare che il mancato ulteriore calo della partecipazione sia dovuto proprio alla presenza di un’offerta politica anti-europeista, sia nel senso più radicale dell’espressione, sia nella variante soft del partito “anti-moneta unica” tedesco. Se si guardano i dati di Francia e Germania, infatti, si può notare come l’astensione sia diminuita, in controtendenza con le volte precedenti: probabilmente, elettori che per protesta si sarebbero rifiutati di recarsi alle urne hanno alla fine optato per dare il proprio voto a forze come il FN di Le Pen e la AfD.

L’affluenza è aumentata anche in Grecia (dal 52,6% al 58,2%), dove il sentimento di opposizione all’UE, nato in seguito alle misure adottate per fare fronte alla crisi, è incarnato da Alexis Tsipras e dalla sua Syriza, risultata la lista con il maggiore consenso. Sarebbe un errore, tuttavia, ritenere questa formazione una pura e semplice trasposizione sul versante opposto dello schieramento politico delle stesse intenzioni che albergano nella destra radicale francese o nei populisti britannici. La sinistra radicale ellenica, infatti, non è contraria all’integrazione comunitaria, né all’euro: ciò che promuove è un cambiamento molto profondo della linea adottata sino ad ora nelle politiche economico-sociali. Non si è lontani dal vero se si considera Syriza una sorta di variante più spinta di alcune posizioni sostenute dalla stessa famiglia socialdemocratica europea, all’interno della quale si sono sentite critiche molto dure ai memorandum della troika (Commissione UE, BCE, FMI) e alla più generale politica di austerità.

Lo stesso può dirsi di quelle altre forze di sinistra che andranno a sedersi nel gruppo GUE/NGL dell’europarlamento uscite soddisfatte dalla tornata elettorale: ad esempio, le spagnole Izquierda unida e Podemos. Quest’ultima è una delle maggiori sorprese in assoluto del voto continentale, e non solo dal punto di vista iberico: in pochi mesi, è stata capace di raccogliere un vasto consenso (sfiora l’8%) attorno a una piattaforma nata in rete, prevalentemente con il contributo di giovani attivisti. Il tempo dirà se questo exploit si consoliderà in una realtà durevole, in grado di convertirsi in un attore di nuove forme dell’azione politica fondate sul protagonismo delle giovani generazioni sul web – di cui si è già vista traccia in questa campagna elettorale.