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I nuovi scenari del Parlamento Europeo

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Lo scrutinio dei voti non lascia dubbi: la temuta ondata euroscettica investirà effettivamente il nuovo Parlamento di Bruxelles. Tuttavia – al di là del clamoroso ma previsto risultato francese – la sua portata è in qualche modo minore rispetto alle previsioni, e la sua capacità di impatto potrebbe esserlo altrettanto, a causa delle divisioni che percorrono il fronte nazional-populista e quello delle varie formazioni che mettono in discussione i cardini dell’integrazione europea.

Non tutti i partiti euroscettici hanno di che festeggiare. Il trionfo di Marine Le Pen si accompagna alle vittorie dell’UKIP di Nigel Farage e del Partito del Popolo danese; ma queste forze politiche, già in partenza caratterizzate da una base elettorale e da scopi politici differenti, provengono da due paesi che non appartengono all’eurozona. Sono dunque meno interessate, se non in chiave isolazionista, al nocciolo delle scelte politiche che ruotano attorno alla costruzione definitiva dell’unione bancaria o della messa a punto di un bilancio comunitario – ossia ai prossimi fondamentali obiettivi dell’integrazione europea.

Parallelamente, si contano le delusioni del PVV olandese di Geert Wilders, dei Veri Finlandesi e del Partito nazionale slovacco. Sono forze politiche di cui in molti prevedevano l’affermazione come primo partito nei rispettivi paesi, che invece raccolgono molto meno di quanto previsto. L’austriaca FPÖ di Heinz-Christian Strache – l’erede di Jörg Haider – può d’altro canto vantare un certo successo nelle urne, ma ha anch’essa fallito l’obiettivo della prima posizione. Il 7% raccolto in Germania dall’antieuro Alternative für Deutschland può essere considerato un successo rispetto al risultato delle politiche dello scorso anno, ma si traduce in un magro risultato in termini di seggi a Bruxelles.

La variegata truppa dei deputati euroscettici occuperà dunque circa un quinto dei seggi del nuovo Parlamento Europeo. E di fronte a origini, radici culturali e basi sociali tanto diverse, è evidente come non costituiscano un blocco granitico – anche perché la loro forza deriva spesso da una battaglia condotta a livello nazionale, mentre le tematiche europee non vengono approfondite al fine di mantenere il vantaggio del richiamo identitario e contestatario.

Possiamo quindi identificare almeno due grandi blocchi all’interno delle quali questi partiti finiranno per posizionarsi, guidati da due stelle dell’attuale firmamento politico europeo. La prima è quella di Nigel Farage, che tenterà di ricostituire quasi in solitaria l’unico gruppo di destra radicale presente nella legislatura appena passata, cioè Europa della Libertà e della Democrazia (ELD). L’altra testa del gruppo, la Lega Nord rappresentata da Francesco Speroni, appare poco propensa a ripetere l’esperimento, mentre altre componenti come il LAOS greco e i nazionalisti slovacchi sono diventati marginali nei rispettivi paesi. La costituzione di un gruppo al Parlamento Europeo richiede infatti un minimo di 25 deputati da almeno sette Stati membri, e i due blocchi corteggiano assiduamente i partiti ancora indecisi sulla propria collocazione.

La seconda stella è naturalmente quella del Front National; una stella luminosa, che attira interesse dai quattro angoli del continente. Pronti a unirsi a Marine Le Pen sono infatti il l’olandese PVV, l’FPÖ austriaca, il fiammingo Vlaams Belang e i Democratici svedesi – per non nominare che i principali. Si tratta di partiti uniti da un nazionalismo etnico e sociale, ben differente dall’isolazionismo libertario di Nigel Farage così come dalle posizioni del Partito del Popolo danese: entrambi hanno già escluso ogni collaborazione con i “fascisti” del Front National.

Un’unione tra questi due blocchi – sebbene renderebbe molto più forti i partiti che ne fanno parte – è infatti quasi impossibile: l’UKIP vede bene il nazionalismo, ma non ha più intenzione di mischiarsi con forze identificabili con l’estrema destra “vecchio stile”. Nonostante la dédiabolisation – l’operazione di miglioramento della propria immagine perseguita dalla Le Pen – è ancora così che appare il Front National nelle isole britanniche. Per la stessa ragione, la Lega vorrebbe abbandonare Farage per abbracciare la destra lepenista, ma non è detto che Marine Le Pen, che si batte per la restituzione alla Francia del suo ruolo di nazione, accetti un partito che ondeggia da anni tra il federalismo e la secessione di una parte del paese. Nessuno dei due blocchi, bisogna infine precisare, ha intenzione di accettare al suo interno i neonazisti greci di Alba Dorata o i razzisti antisemiti ungheresi di Jobbik, che saranno presenti in Parlamento con una manciata di deputati.

I risultati elettorali, ossia un pareggio di fatto tra il campo socialista e quello popolare, che insieme ottengono poco più della metà dei seggi totali, prelude alla conferma del modello consensuale – o se si vuole, alla prosecuzione delle larghe intese. Effettivamente, nelle dinamiche del Parlamento Europeo, la maggioranza relativa di un gruppo non ha mai significato il dominio di quel gruppo sulla politica – anche perché il Parlamento non è legato a nessun governo e le diverse provenienze nazionali rendono a volte più labili i legami tra i deputati, mentre la prassi di preparazione al passaggio parlamentare delle leggi permette molti accordi preliminari.

Già nella legislatura 2009-2014 – in cui la maggioranza relativa è stata anche in quel caso appannaggio dei popolari – la forza dominante nel 70% dei voti parlamentari è stata un’unione di fatto tra popolari e socialisti. Solo nel 15% dei casi si è imposta una coalizione centrata sui popolari o sui socialisti, e di solito sempre in alleanza con i liberali. La possibilità di una coalizione stabile di centrodestra o centrosinistra, pur presente, è stata accantonata: nessuno, nei cinque anni che hanno visto il peggioramento di immagine più grave della storia per l’Unione Europea, avrebbe mai voluto essere etichettato come “quelli che comandano nell’europarlamento”. Lo stesso accadrà nella legislatura che si sta aprendo.

Le larghe intese e la prassi legislativa consensuale impediranno dunque che gli euroscettici riescano a condizionare le attività parlamentari se non in maniera simbolica – ad esempio abusando della facoltà di tenere discorsi e di rivolgere petizioni alla presidenza. Alcune formazioni, come il Front National, potrebbero approfittare più di altre del palcoscenico offerto dall’assemblea di Bruxelles, soprattutto considerando la loro limitatissima rappresentanza parlamentare nazionale – spesso condizionata da leggi elettorali che premiano il bipartitismo. La risonanza nel Regno Unito degli interventi di Nigel Farage a Bruxelles negli scorsi cinque anni è stata una delle chiavi dell’attuale successo dell’UKIP.

Paradossalmente, le ripercussioni saranno quasi sicuramente maggiori sul Consiglio: ministri, capi di governo e capi di Stato subiranno le conseguenze di una pressione crescente sugli esecutivi nazionali. Il rischio è che finiscano per includere parti dei programmi delle forze euroscettiche nel proprio discorso, per convincere gli elettori che si tratta di intenzioni che loro condividono. Ciò influirebbe sulle scelte politiche nazionali e di lì, attraverso le decisioni prese nel Consiglio, direttamente sull’Unione Europea.

In realtà, è un fenomeno che sta già accadendo. Alla crescente popolarità dell’UKIP si deve la promessa di un referendum sulla permanenza inglese nell’UE, ma anche – a livello europeo – l’ostruzionismo del Regno Unito nel Consiglio e nella richiesta di restituzione di poteri comunitari a livello nazionale – richiesta condivisa dal governo olandese. Inoltre, le iniziative di Francia e Danimarca per l’introduzione di forme temporanee di sospensione della libera circolazione – provocate dalla pressione del Front National e del Partito del Popolo danese – hanno portato nel 2013 alla riforma del trattato di Schengen, uno dei pilastri dell’integrazione europea.