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Le chances elettorali di Obama: crisi economica e demografia

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In Europa, tutti i governi che hanno affrontato elezioni negli ultimi 18 mesi sono stati cacciati: prima i laburisti inglesi, poi i socialisti spagnoli, e infine quello francese – oltre poi al centrodestra italiano, senza elezioni ma sotto l’insostenibile pressione dei mercati. Tuttavia, sarebbe prematuro trarre la conclusione che le elezioni di novembre negli Stati Uniti vedano favorito lo sfidante, il candidato repubblicano Mitt Romney. Queste elezioni saranno un duello aperto a tutti i risultati perché due forze opposte favoriscono i due candidati: lo stato deludente dell’economia (benché Obama non ne abbia alcuna responsabilità) favorisce Romney ma l’evoluzione demografica del paese e la storia elettorale sono fattori che migliorano le chances di Obama. I Repubblicani confidano sul fatto che, dopo il 1936, nessun presidente è mai stato rieletto con una disoccupazione superiore al 7% ma le cose sono più complicate di quanto appaiano.

Prendiamo le recenti vicende elettorali in uno stato come il Wisconsin. Pochi giorni fa il governatore Scott Walker, un Repubblicano fortemente antisindacale, è stato facilmente rieletto in una elezione speciale (i Democratici avevano raccolto un milione di firme per mettere fine anticipatamente al suo mandato, in base alla procedura del “recall”): questo significa che Romney ha buone possibilità di conquistare questo Stato in novembre? No: è uno Stato politicamente molto diviso ma l’ultima volta che ha votato repubblicano in una elezione presidenziale è stato nel 1984, per Ronald Reagan. Nel 2012 Obama non ripeterà il trionfo del 2008 ma le sue chances di vittoria sono rimaste buone.

La geografia delle elezioni presidenziali americane si è consolidata negli ultimi anni: le due coste e il Midwest votano democratico, il Sud e le grandi praterie votano repubblicano. I due blocchi quasi si equivalgono ed è qui che l’evoluzione demografica entra in gioco: più numerosi sono i giovani e le minoranze etniche (ispanici e afroamericani) e maggiori sono le possibilità di vittoria per i Democratici. Dove prevalgono elettori anziani e abitanti nei piccoli centri, o maschi bianchi privi di istruzione universitaria, sono in genere i candidati repubblicani a uscire vincitori. Nel 2008, Obama ebbe una vittoria così ampia anche per la sua capacità di rompere il monopolio elettorale repubblicano nel Sud vincendo in Virginia, North Carolina e Florida – tre stati dove quest’anno avrà grandi difficoltà ma che gli strateghi Democratici non danno ancora per persi.

Come si sa, l’elezione del presidente degli Stati Uniti non è diretta: dipende dal voto del collegio elettorale, cioè dei “grandi elettori” che votano Stato per Stato. Questo significa che è possibile che un candidato ottenga meno voti popolari e vinca ugualmente le elezioni, come accadde nel 2000 (anche grazie a una scandalosa sentenza della Corte Suprema, che favorì George W. Bush in modo decisivo). Questo carattere federale dell’elezione induce i candidati a concentrare sforzi e risorse negli stati “in bilico”, quelli in cui il risultato non è già scritto in partenza come in California (che vota democratico) o in Texas (dove si vota repubblicano).

Sono 12, quest’anno, gli Stati dove si decideranno le elezioni, e lì la coalizione di giovani e minoranze etniche sarà del 3% più numerosa di quanto fosse nel 2008, mentre gli elettori bianchi e senza laurea, una constituency ormai solidamente repubblicana, saranno diminuiti del 3%. Questo non garantisce nulla ma offre a Obama migliori prospettive che a Romney. A livello nazionale, i bianchi costituivano l’89% degli elettori nel 1976, oggi sono circa il 72%; gli ispanici, che tendono a votare per i Democratici, erano l’1% nel 1976 e sono quasi il 10%.

Tuttavia i giovani e le minoranze sono anche la parte dell’elettorato più assente dalla politica, più scoraggiata, meno incline a votare. La mobilitazione dei giovani a favore di Obama fu un’eccezione: quest’anno i diciottenni, duramente colpiti dalla recessione degli ultimi quattro anni, sembrano indifferenti alla politica e poco inclini a seguire l’esempio dei loro fratelli maggiori, che nel 2008 si mobilitarono a centinaia di migliaia per sostenere il candidato democratico. Questo potrebbe danneggiare Obama.

Le buone notizie, per il presidente uscente, vengono dal ruolo delle donne: le primarie repubblicane, con la prolungata esibizione di candidati antiabortisti come Newt Gingrich e Rick Santorum, hanno ulteriormente radicalizzato l’elettorato femminile che, già da molto tempo, tende a favorire in ogni elezione i candidati democratici. Quest’anno il gender gap sarà più largo che mai, come riflettono i sondaggi recenti realizzati nei cosiddetti swing states (Ohio, Pennsylvania, Wisconsin, Nevada), tutti favorevoli a Obama anche se con margini molto ridotti.

Per Romney, le carte da giocare sono due: l’insistenza sull’economia che non decolla e la possibilità di sfruttare le enormi risorse finanziarie messe a disposizione da sostenitori milionari. La sentenza della Corte suprema del 2010 Citizen United ha decretato la fine delle limitazioni nelle spese per sostenere i candidati, aprendo ancor più la strada al dominio del denaro sul processo politico. Quest’anno tutti i record di spesa saranno battuti e i Repubblicani supereranno ampiamente i Democratici per la quantità di risorse disponibili.

Tutto può ancora accadere: un’implosione dell’euro con una nuova crisi mondiale, ancora più violenta di quella del 2008 porterebbe certamente alla sconfitta del presidente, così come un’improvvisa esplosione dei prezzi petroliferi dovuta a un attacco israeliano contro l’Iran. Le incognite sono numerose ma Obama può contare su una solida base elettorale: se riuscirà a portare alle urne giovani, neri e ispanici, rimane il candidato che ha senz’altro più possibilità di essere rieletto di quante ne abbia Angela Merkel l’anno prossimo.