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La riforma sanitaria di Obama nell’America incerta sul futuro

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La riforma sanitaria voluta dal presidente Barack Obama – nota come “Obamacare” – ha finalmente oltrepassato il guado. Un varco per molti versi ideologico, una strettoia fattasi determinante anche per la campagna presidenziale d’autunno, su cui sia l’amministrazione Obama che la compagine repubblicana con in testa il candidato Mitt Romney, hanno puntato molto.

La legge che ha il nome ufficiale di Patient Protection and Affordable Care Act (PPACA), è stata infatti giudicata costituzionalmente legittima dalla Corte Suprema, con una battaglia che parte da lontano e che ha visto i giudici schierarsi in un serrato 5 a 4 a favore della riforma. L’obbligatorietà dell’assicurazione, prevista dalla legge varata il 23 marzo 2010 dall’amministrazione democratica, può essere equiparata ad una tassa ricadendo pertanto nelle competenze del potere federale – così ha sentenziato la Corte.   

È stata così estesa a 50 milioni di persone (il 17% circa degli americani che non avevano ancora contratto una polizza) la copertura sanitaria assicurativa che, se non acquistata – a meno che non si rientri nei criteri di ammissione al programma Medicaid, la sanità pubblica per i meno abbienti – obbligherà il cittadino americano a pagare una multa di qualche centinaio di dollari.

La sanità in America vanta un giro d’affari di circa 2.600 miliardi di dollari l’anno, ed arriverà a toccare – si stima nel 2020 – il 20% dell’intera economia, a fronte di un 18% già nel 2012. Allargando il numero degli assistiti paganti, quando la riforma completa entrerà in vigore nel 2014, si realizzerà un business da 3.000 miliardi di dollari. 

Sembrerebbe opportuno quindi guardare al volume d’affari e non tanto alla spesa sanitaria, proprio perché negli Stati Uniti non esiste un diritto alla salute garantito dalla Costituzione attraverso il welfare, come invece in tutti gli altri paesi più economicamente avanzati (i membri dell’OCSE). Il problema è che, con la generazione dei baby boomers che andranno in pensione da qui al 2030 al ritmo di 10.000 persone al giorno, la spesa sanitaria lieviterà del 6% annuo dal 2014, rispetto a una crescita oggi del 4%.

Ed è stato proprio questo il punto – la questione economica – su cui si è consumata la vera battaglia tra Repubblicani e Democratici, o ancora meglio tra Romney ed Obama.

Eppure la controversia ha avuto una genesi ed uno sviluppo circoscritto al confronto tra potere federale e quello dei singoli stati. Alla Corte Suprema si è giunti, infatti, perché la National Federation of Independent Business (NFIB), lobby da sempre vicina ai candidati del GOP, ha citato in giudizio Kathleen Sebelius, il ministro della Sanità, per la presunta incostituzionalità della legge. 

Quasi in contemporanea, lo stato della Florida ha avviato una sua causa per incostituzionalità nei confronti dello stesso dipartimento della Sanità. Nel gennaio 2011 il giudice della Florida Roger Vinson, ha stabilito che l’individual mandate, ovvero l’obbligatorietà dell’acquisto della polizza, era fuori dalla portata decisionale del Congresso, decretando così l’inizio della battaglia legale su Obamacare. Il dipartimento ha risposto appellandosi all’ 11th Circuit Court of Appeals (che riunisce le corti di Alabama, Florida e Georgia), il quale giudicava solo l’individual mandate illegale ma non incostituzionale il resto della legge; il governo ha infine deciso di fare richiesta di giudizio presso la Corte Suprema, by-passando così il circuito giurisdizionale degli stati federali. 

Alla causa mossa dalla Florida si sono quindi uniti anche altri 12 Stati: South Carolina, Nebraska, Texas, Utah, Louisiana, Alabama, Michigan, Colorado, Pennsylvania, Washington, Idaho e South Dakota. E, nel gennaio 2011, anche Maine, Wisconsin, Ohio, Kansas, Iowa e Wyoming, allorché la Camera votava per abrogare la PPACA, tentando invano un blitz tutto repubblicano. Intanto il giudice dell’Eastern District Court of Virginia Henry E. Hudson, nominato da George W. Bush, sentenziava come incostituzionale la porzione della legge riguardante l’individual mandate.  

Di fronte ad una disputa sempre più accesa, Obama ha persino tentato, con una mozione, di invalidare la causa – che avrebbe alla fine coinvolto 26 stati a reggenza repubblicana – sostenendo l’impossibilità per gli stessi di sfuggire alle leggi federali e portando, in tal modo, la questione sul piano dell’autonomia di azione del governo centrale.

Nel settembre 2011 la Court of Appeals for the Fourth Circuit dava in qualche modo ragione a Obama: essa decretava che la Corte della Virginia non aveva l’autorità di invalidare la legge.

I quesiti a cui è stata chiamata la Corte Suprema hanno quindi trovato risposta proprio sul terreno del confronto tra il ruolo del governo federale e l’indipendenza degli stati: il potere del governo di imporre nuove tasse come l’obbligo d’acquisto della polizza, di ordinare (in base all’articolo 1 della Costituzione) una copertura assicurativa minima ai cittadini, e di ingiungere gli stati a partecipare all’espansione federale del programma Medicaid (il governo può solo creare incentivi, ma non punire gli stati che si rifiutano di accettarli, si legge nella sentenza).  

Il dibattito alimentato delle alterne vicissitudini di Obamacare nelle corti di Appello federali, è stato portato avanti dall’establishment del GOP, il quale (anche distorcendo i fatti) ha focalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica sulle paure di uno statalismo accentratore – irrorato di un certo socialismo – che decide per gli stati federali facendo venir meno i valori della Costituzione americana. Il settore più oltranzista del Partito Repubblicano, il Tea Party, si è mobilitato sugli aspetti economici in nome dell’austerity, facendo passare – falsamente – l’Obamacare come un’iniziativa costosa. E ciò nonostante lo stesso Romney, da governatore del Massachusetts – uno stato peraltro di lunga tradizione democratica – abbia varato una riforma analoga (se non identica).

L’amministrazione Obama ha faticato a far passare un provvedimento comunque rivoluzionario come il PPACA, proprio perché la crisi spinge l’opinione pubblica verso posizioni più conservatrici, a fronte di un elevato tasso di disoccupazione (che nel marzo 2010, quando fu approvata la legge, aveva raggiunto un picco del 9,8%) e critiche crescenti alla gestione dell’economia e della finanza – anche da sinistra, come dimostra Occupy Wall Street. A giocare contro Obama è stata anche l’eccessiva attesa creatasi all’indomani della sua elezione a Presidente che ha generato frustrazione nella cittadinanza dati i risultati percepiti da molti come deludenti. Quando, in realtà, la vera svolta c’è stata ed è dovuta al contenimento della spesa sanitaria che questa riforma realizzerebbe: dal 2014 molti dei cinquanta milioni di americani oggi non assicurati non ricorrerebbero più alle cure d’emergenza.

Si è usato comparare l’healthcare di Obama ai mancati colpi riformatori sulla sanità di Teddy Roosevelt, Johnson e Clinton. Quando Lyndon B. Johnson fu eletto presidente nel 1964, uno dei suoi primi pensieri fu per Medicare e su come stemperare, quasi dissimulando, il presunto impatto dei suoi costi sull’opinione pubblica e sul Congresso. Il suo più grande oppositore sul tema, Ronald Reagan, non aveva però gioco facile come Mitt Romney. La crisi di oggi cambia la percezione del futuro e l’America di Obama deve ancora capire davvero quale economia l’aspetta, prima di dire sì ad una piccola grande rivoluzione che farà persino risparmiare risorse.