Raccolte fondi, calendari elettorali, scelte di argomenti e dichiarazioni pubbliche descrivono un parterre di candidati repubblicani alla Casa Bianca in grande movimento. Un parterre segnato dalla comune convinzione che Barack Obama può essere sconfitto nel 2012 ma anche da profonde lacerazioni nello schieramento conservatore.
La corsa alla nomination del Grand Old Party inizierà il 6 febbraio con i caucus dell’Iowa, e le raccolte fondi finora condotte suggeriscono che il front runner è Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts. Ovunque vada, Romney ha grande facilità nell’organizzare eventi elettorali. Mel Sembler, ex ambasciatore a Roma durante l’amministrazione Bush, lo spiega con il fatto che “dispone di un network a cui sta lavorando dal 2007”. In una recente serata di finanziatori in Florida Romney ha portato a casa 250 mila dollari, dal New Hampshire al South Carolina – che saranno teatro delle primarie dopo l’Iowa. Ha già in campo una vistosa organizzazione e c’è chi ritiene che alle sue spalle possano esserci gli stessi Bush. D’altra parte l’ex vicepresidente Dick Cheney puntò proprio su Romney nelle presidenziali 2008 – quando la nomination repubblicana poi andò al senatore John McCain – e la preponderanza dei temi economici sembra esaltare il profilo di un candidato che vede nelle proprie competenze nel business il principale messaggio destinato agli elettori.
Ma Romney non andrà questo agosto in Iowa per il tradizionale Straw Poll conservatore (un voto preliminare non vincolante) lasciando intendere che punta a iniziare la corsa con una vittoria in New Hampshire – da dove ha lanciato la campagna. Salterà invece Des Moines, dove la base repubblicana include uno zoccolo duro di militanti cristiani che lo guardano con sospetto in ragione della sua fede mormone, considerata alla stregua di un’eresia.
In Iowa invece è nata Michele Bachmann, la deputata del Minnesota paladina del Tea Party che si è imposta come protagonista del primo dibattito tv fra gli sfidanti repubblicani grazie a quanto detto sul fatto di essere “madre di 5 figli” ed averne adottati “altri 23”: sembra così incarnare un valore della famiglia in cui molti conservatori vedono il nuovo terreno di scontro etico con il fronte liberal, lanciato nella legittimazione su scala nazionale delle nozze gay.
Bachmann somma la grinta del Tea Party e i valori della base evangelica ad una determinazione nella raccolta fondi che, sebbene inferiore nei risultati a quella di Romney, le assegna il ruolo di possibile sorpresa. Come riassume David Axelrod, consigliere politico di Obama, “se vincerà in Iowa potrebbe andare lontano” offrendo ai repubblicani una candidatura conservatrice doc alternativa all’impostazione di Romney – basata più su credibilità e competenza che non sui valori. Per Michael Barone, fra i maggiori studiosi della presidenza americana, l’exploit di Bachmann è tale da far sì che “oggi fra i repubblicani non vi sono favoriti e la partita è completamente aperta”.
È questa interpretazione a far sperare i candidati che si considerano alternativi a Romney sul terreno di competenza a credibilità: l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty e l’ex governatore dello Utah Jon Huntsman. Pawlenty sarà ospite del Council on Foreign Relations a New York mentre Huntsman, ex ambasciatore a Pechino, ha in programma discorsi su economia e sicurezza nazionale. Entrambi puntano a dimostrarsi credibili con l’elettorato indipendente che nel voto di midterm del 2010 è stato determinante per far vincere i repubblicani ed è decisivo per imporsi in New Hampshire. Se uno di loro riuscisse a sconfiggere Romney in New Hampshire, la corsa per la nomination cambierebbe subito su scala nazionale.
Le strategie elettorali per il debutto delle primarie divergono, ma sui temi d’attacco nei confronti di Obama gli sfidanti registrano una forte convergenza. Per Romney “Obama ha mancato le promesse di crescita”; per Bachmann “la disoccupazione è frutto delle sue scelte”; per Pawlenty “il problema è la riforma della Sanità”; e per Huntsman “non ha una ricetta valida per il lavoro”. È un’offensiva che punta ad evidenziare il 9,1% di disoccupazione, attribuendo a Obama la responsabilità di aver peggiorato il tenore di vita del ceto medio che lo votò nel 2008.
Sulla sicurezza nazionale invece emergono differenze e contraddizioni, se si esclude l’unanime plauso all’eliminazione di Osama bin Laden. Romney chiede il “ritorno al più presto delle truppe dall’Afghanistan” facendo intendere di auspicare un ritiro massiccio mediato solo dai tempi “decisi dai comandanti sul terreno”. Pawlenty accusa Obama di “parlare di ritiro responsabile dall’Afghanistan mentre un presidente americano deve avere per obiettivo la vittoria”. Ron Paul, candidato dei libertari, guida la richiesta di “porre fine a tutti i nostri conflitti, dall’Afghanistan alla Libia, per poterci occupare del risanamento del bilancio”.
L’opposizione dei leader repubblicani del Congresso alle operazioni militari in Libia – motivata dal mancato ricorso di Obama all’autorizzazione formale dell’aula – conferma che i conservatori tentano di raccogliere voti anche in quei settori anti-guerra dell’elettorato che in genere privilegiano i democratici ma che questa volta, proprio per i guai dell’economia, potrebbero voltare loro le spalle. John McCain ammette di non riconoscersi in un partito venato da isolazionismo e disposto a ridurre i fondi per il Pentagono in misura tale “da chiedersi cosa direbbe Ronald Reagan se oggi dovesse essere fra noi”. Ma McCain nel 2008 perse mentre oggi i repubblicani, come scrive Bill Kristol, “sono convinti che nelle urne possiamo vincere” perché “Obama è battibile”; e ciò a causa del pessimismo sul futuro che dilaga negli Stati Uniti. Resta da vedere se il frastagliato schieramento conservatore riuscirà ad esprimere un’alternativa credibile al vulnerabile presidente.