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Il dilemma siriano

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“Poiché abbiamo giurato all’accademia militare di puntare le armi contro il nemico nelle aree occupate e proteggere i nostri confini, e non contro il nostro popolo e i nostri bambini, annuncio il mio ritiro dall’esercito e la mia adesione al movimento siriano rivoluzionario pacifico”. A parlare in un video diffuso su YouTube in giugno è il capitano Ibrahim Munir Majbur, ex ufficiale dell’esercito siriano. Come lui, centinaia di soldati siriani hanno abbandonato le forze armate di al Assad per sfuggire alla morte che li attendeva dopo aver disubbidito ai loro comandanti alawiti e non aver aperto il fuoco sui loro connazionali.

Sarebbero sessanta fino ad oggi gli ufficiali siriani in questa situazione, fuggiti in Giordania, oltre a 1500 soldati circa che hanno disertato. Tuttavia, a differenza del caso libico, in Siria non si è ancora registrata una consistente spaccatura a livello di comando delle forze armate, guidate dalla minoranza alawita al potere. Non a caso, i militari disertori sono per la maggior parte sunniti che si sono rifiutati di sparare sulla folla.

Bashar al Assad, il presidente siriano, lo aveva promesso alcuni mesi fa nel suo discorso al parlamento: “La nostra priorità è la sicurezza e la stabilità nazionale”. Tradotto in termini pratici, si trattava dell’annuncio di una violenta repressione.

Pochi giorni fa al Assad è tornato a parlare, ribadendo quanto dichiarato il quel discorso: “Le riforme possono aspettare”. Ancora repressione, dunque.

Nella repressione violenta delle rivolte, il governo si basa, oltre che sulla polizia segreta e sulle milizie alawite, su due pilastri fondamentali: la Guardia Repubblicana e il IV° reggimento corazzato.

Il IV° reggimento è la vera spina dorsale del regime. Comandato dal colonnello Maher al Assad – 43 anni, fratello di Bashar e capo della Guardia Repubblicana – il reggimento è autonomo e rappresenta il diretto braccio armato del regime. Durante un’intervista televisiva, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato direttamente il colonnello Maher di “trattamento disumano” nei confronti dei manifestanti.

A sostenere il regime nella sua violenta repressione, vi sono sul terreno anche elementi dell’Hezbollah libanese e membri legati ai pasdaran iraniani. Molti dei fuggiaschi che si sono riversati in Turchia non hanno dubbi: si tratta di uomini dei Basij, che fanno capo direttamente ai pasdaran iraniani. Il loro ruolo consiste soprattutto nel fornire cecchini e uomini pronti a uccidere i soldati siriani che fossero restii a sparare contro la folla.

Thamer Turad è lo sceicco della tribù siriana al Hadidiyin, che si è unita al movimento rivoluzionario come moltre altre delle circa 50 presenti in Siria. intervistato dal quotidiano algerino Echourouk, Turad ha confermato la presenza di elementi dell’Hezbollah libanese in Siria a fianco delle forze governative. Alcuni sarebbero stati identificati a Jisr al Shughur, località a confine con la Turchia, teatro di violenti scontri.

A oltre tre mesi dall’inizio delle rivolte bisogna tenere presente che quella siriana è una rivoluzione che coinvolge molti strati della popolazione: non soltanto i ceti bassi ma anche quelli alti, che peraltro finanziano di fatto le rivolte fornendo telefoni cellulari, cibo, telecamere e medicinali. A loro si sono uniti anche gli imam delle moschee ed ex membri del partito Ba’ath.

Un ulteriore problema per il regime è quello finanziario: secondo le stime di alcuni diplomatici a Damsco, vi sarebbero ancora risorse per circa sei mesi di campagna repressiva. Questo potrebbe spingere il governo a scelte ancora più disperate. In tale quadro, incombe il rischio di un ampliamento del conflitto: il regime si è mostrato intenzionato a combattere la sua battaglia fino in fondo e non esiterebbe ad estendere la crisi al resto della regione, vale a dire Libano, Israele e Turchia. I segnali si sono già visti.

Contro Israele, il presidente siriano ha scatenato all’inizio del mese la rabbia dei palestinesi in occasione del 44° anniversario della Naksa. Sul versante turco, al Assad ha dato ordine di schierare i carri armati siriani sul confine, un gesto che ha aggravato la crisi tra Ankara e Damasco e ha portato gli Stati Uniti a mettere in guardia il regime dall’avvicinarsi a quelli che sono stati definiti i “confini della NATO”.

Infine, c’è stata la nascita di un governo libanese praticamente guidato da Hezbollah, forte alleato nella regione del regime al Assad. All’indomani dell’annuncio del nuovo governo, si leggeva sulle pagine del quotidiano libanese As-Safir, da sempre vicino alle posizioni siriane: “Sembra che il presidente al Assad sia più potente in Libano che in Siria”.

Anche dopo il ritiro siriano dal Libano del 2005, al Assad ritenne che il Libano dovesse rimanere terreno di scambio o di resa dei conti sia con la comunità araba che con quella internazionale. Questa politica ha trovato terreno fertile nella consolidata alleanza tra la Siria e l’Iran, passando per il fedele alleato libanese, l’Hezbollah. Secondo fonti vicine al Partito di Dio, il movimento sciita non esclude la possibilità di lanciare un attacco contro Israele, (come nell’estate del 2006) per attenuare le pressioni occidentali sul regime di al Assad.

La recente nascita del nuovo governo libanese sancirebbe nuovamente la diretta dipendenza del Libano dal regime siriano. Il Libano, è attualmente uno dei membri non-permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e nel caso di un voto sulla Siria non esiterebbe a sostenere al Assad. Intanto, la crisi siriana ha già avuto un impatto su alcune aree nel nord del Libano, abitate prevalentemente da alawiti: a Tripoli, nel nord del paese, si sono registrati in giugno violenti scontri tra alawiti e sunniti (in particolare, sostenitori dell’attuale opposizione libanese). Inoltre, i servizi segreti siriani hanno dimostrato negli ultimi anni di essere in grado di manovrare in Libano insidiose cellule di stampo salafita-jihadista, che possono rappresentare una minaccia anche per il contingente UNIFIL già colpito in maggio da un attacco contro una pattuglia italiana. Di fronte all’eventuale emanazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di una o più risoluzioni, il ministro degli Esteri siriano, Walid al Muallem, parlando a nome del regime, ha lanciato un chiaro messaggio a Ban Ki-Moon e alla comunità internazionale: “Qualsiasi risoluzione ONU incoraggerà gli estremisti e i terroristi”.

Dato questo delicatissimo quadro regionale, le opzioni per la comunità internazionale sembrano davvero limitate. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha condannato più volte la violenza del regime siriano e ha chiesto personalmente a Bashar al Assad di porre fine alla repressione ed avviare un dialogo. Da parte loro, gli Stati Uniti stanno intensificando i contatti con i siriani intenzionati ad avviare un vero cambiamento nel paese, come ha precisato Victoria Nuland, portavoce del dipartimento di Stato. In tal senso, si sta già lavorando al dopo-Assad.

Il Consiglio europeo ha dichiarato di sostenere “sforzi diplomatici finalizzati ad assicurare che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite possa assumersi le proprie responsabilità, e fornire un’adeguata risposta alla situazione in Siria”. In altri termini, si chiede al Palazzo di Vetro di approvare una risoluzione di condanna contro il regime di al Assad, con la consapevolezza della delicata situazione regionale e della sostanziale impossibilità, per ora, di un intervento internazionale diretto. Nonostante la contrarietà russa a una qualsiasi Risoluzione di condanna, perfino Mosca – tradizionale alleato di Damasco – sta ormai prendendo le distanze dal regime.

In conclusione, il governo siriano ha ancora delle carte da giocare, proprio in virtù della sua capacità di creare o aggravare problemi regionali in una fase di grande incertezza. È però anche vero che Damasco sta prendendo rischi sempre più alti e che la durissima repressione interna non ha ancora fermato le rivolte.