Gli stereotipi sono superficiali e spesso fuorvianti. Quelli sui diplomatici tendono in generale, purtroppo, ad essere in gran parte negativi. C’é chi li crede cinici, pomposi, o opportunisti. Silvio Fagiolo smentiva con i fatti tutti questi stereotipi. Se Harold Nicolson avesse scritto in epoca più recente la sua “Storia della diplomazia” lo avrebbe inserito nella categoria del “diplomatico ideale”, dotato di tutte quelle virtù che conferiscono al diplomatico un’elevata autorevolezza professionale e morale: la veridicità, la precisione, la pazienza, la modestia, la lealtà. Bisognerebbe aggiungervi, tra le virtù, la passione autentica per il suo lavoro. Silvio Fagiolo detestava i cinici. È stato un diplomatico appassionato nel senso più nobile del termine. Amava non solo fare la politica estera “day by day”, ma anche studiare a approfondire le dinamiche complesse delle relazioni internazionali, mettendo le sue conoscenze approfondite al servizio della Farnesina e del paese. Era un’europeista convinto e lottava per rimediare all’incompiutezza politica dell’Europa, nella convinzione che l’Europa politica fosse nell’interesse nazionale dell’Italia. Ma fu tra i primi a rendersi realisticamente conto, sin dai negoziati per la prima revisione del trattato di Maastricht, quando l’UE contava ancora solo 15 paesi, che l’integrazione politica andava realizzata attraverso forme innovative di flessibilità, cooperazioni rafforzate tra un numero limitato di paesi. Un concetto che ha continuato a sostenere con intelligenza fino alla fine, da ultimo nel suo recente libro (“L’idea dell’Europa nelle relazioni internazionali”): “non si tratta di abrogare l’Europa esistente, né di creare due Europe parallele. Si tratta invece di promuovere dentro i trattati e in settori strategici come la difesa e la sicurezza, la moneta, aggregazioni più forti tra coloro che credono che il cammino dell’integrazione non sia esaurito e possa diventare più politico”. Una raccomandazione politica, questa, che il multipolarismo e l’europeismo selettivo degli stati rendono sempre più attuale.
Quella di Silvio Fagiolo era una lealtà convinta, unita a un profondo senso di responsabilità, nei confronti delle istituzioni. Ricordo che una volta, leggendo in aereo verso Bruxelles un libro, commentò criticamente le tesi troppo generaliste e per lui superficiali sull’Europa dell’autore: “vedi, questa è la differenza tra chi scrive così, senza avere responsabilità dirette, e chi invece ha come noi la responsabilità di presentare al ministro pezzi di carta precisi e argomentati”.
Sentiva il ruolo del diplomatico, vicino al ministro com’era lui soprattutto negli anni dei negoziati sul dopo Maastricht e come Capo di Gabinetto: l’uomo dell’ “ultimo passaggio” (amava tra l’altro il calcio), colui che dà l’assist finale, suggerisce al ministro degli Esteri quale linea seguire negli interessi del paese, in situazioni dilemmatiche, con diverse opzioni aperte. Un ruolo, quello “dell’assist man”, che egli, come pochi, poteva interpretare con autorevolezza grazie al suo ricco background, fatto di letture, esperienze in sedi importanti (Russia, Germania, Stati Uniti, Bruxelles, infine Berlino), conoscenze linguistiche (parlava anche russo e tedesco), scritture (ha prodotto cinque libri: due sulla Russia, due sugli Stati Uniti ed uno sull’Europa). Predicava la qualità. Ci diceva spesso che non bisognava inflazionare il ministro degli Esteri con troppe carte. Bisognava farne “poche ma buone”. Ed il suo standard di “buono” era altissimo, come ho potuto sperimentare personalmente, anche se lui non si poneva mai al di sopra degli altri, non ostentava mai il suo spessore, manteneva la sua modestia e genuina semplicità. Ricordo che quando ero un giovane diplomatico, mi commissionò un paper da scrivere su una tematica europea. Quando glielo portai, mi rispose con la sua usuale gentilezza che il paper doveva essere più “politico” per poter essere presentato al ministro (e ce ne volle da parte mia per poterlo rendere tale o quasi!). Bisognava andare al di là delle technicalities dei trattati europei (“quelle le capisci in pochi minuti”) e guardare alla politica e alla complessa interazione di interessi nazionali che c’è dietro.
Fagiolo raccomandava ai diplomatici più giovani di lui la diversificazione delle esperienze, suggeriva di non fossilizzarsi, per mantenere quella elasticità mentale e professionale che aiuta a crescere. Russia, Stati Uniti, Europa (e Germania), erano stati i suoi teatri di azione preferiti negli anni centrali della sua carriera, svoltasi tra la guerra fredda ed il primo quindicennio post-caduta del muro. Ma ha saputo come pochi; conciliare questi suoi specialismi con un’apertura mentale ed una visione dell’insieme. Se il ministero degli Esteri avesse avuto una struttura simile al dipartimento di Stato, Silvio Fagiolo sarebbe stato il nostro “George Kennan”. Ancor più importante, egli resta per tutti noi l’esempio di una persona esemplare e “diplomatico ideale”.