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La politica estera nella corsa presidenziale repubblicana

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Basta aver dato un’occhiata distratta a qualcuno dei sette dibattiti fra i candidati repubblicani per capire che le proposte di politica estera non saranno in cima alla lista delle issue calde in vista delle elezioni del 2012. La situazione finanziaria globale, il mercato del lavoro e il rilancio di un’economia insabbiata sono certamente le priorità assolute per gli sfidanti di Barack Obama. Ma l’approccio alle questioni globali non è del tutto scomparso; semplicemente è in larga parte subordinato alle voci economiche. Così, se in passato le dispute di politica estera riguardavano dottrine e visioni del ruolo dell’America nel mondo, ora anche l’aggressività ideale dei Repubblicani deve essere equilibrata dal realismo dei bilanci. Lo ha spiegato il segretario della Difesa, Leon Panetta, nella sua prima visita al quartier generale della NATO: “Non possiamo permetterci che i paesi prendano decisioni sulla riduzione della spesa militare nel vuoto, lasciando i vicini e gli alleati al buio”. Che tradotto significa: l’America dovrà tagliare il budget dedicato alla difesa, dunque gli alleati devono essere pronti a fare la loro parte.

Panetta ha detto in modo diplomatico quello che il suo predecessore, Robert Gates, aveva detto con tono duramente amichevole nell’ultima sua visita europea. Erano i giorni dell’addio per il segretario di lungo corso, che durante il viaggio in aereo aveva spiegato il motivo della sua amarezza a un cronista di Newsweek: “Lascio il mio incarico anche perché non potrei sopportare di vedere dall’interno il ruolo dell’America nel mondo drasticamente diminuito”. Gates, come al solito sintetico e fulminante ai limiti della saggezza aforistica, stava andando al cuore del problema della politica estera americana, stretta fra le aspirazioni ideali della superpotenza e la realtà di una riduzione forzata in ampiezza e peso specifico.

Nel vasto e frammentato panorama del GOP c’è chi, come il deputato del Texas Ron Paul, in corsa per arrivare alla sfida con Barack Obama, promuove una linea isolazionista senza compromessi. Paul non perde occasione per dire che vuole “portare immediatamente a casa tutte le truppe americane all’estero” e che le guerre in Afghanistan, Iraq ma anche in Libia sono sciagure di proporzioni mastodontiche. L’ossessione libertaria degli eccessi del governo federale in Paul incontra anche ragioni di respiro morale: non invoca il disimpegno militare soltanto per motivi di bilancio, ma anche per convinzioni “bibliche” che riportano alla regola aurea. “Non so perché non possiamo concepire una politica estera basata sulla buona volontà. Tratta le persone come tu vorresti essere trattato: la regola aurea può funzionare anche qui”, ha detto al National Press Club. Per ostentare la sua diversità rispetto ai conservatori tradizionali, Paul arriva ad abbracciare una tesi che andava molto forte fra gli oltranzisti liberal ai tempi dell’ingresso delle truppe americane in Afghanistan e, con modi più marcati, in Iraq: se qualcuno si è ribellato all’America è soltanto colpa della nostra politica imperialistica. Paul lambisce consapevolmente la giustificazione teorica del terrorismo, ma la sua posizione incontra consensi nella destra più radicale perché fa il gioco di chi, più pragmaticamente, invoca tagli profondi alla spesa pubblica. E il punto di partenza è il Pentagono.

Per quanto la visione di Paul piaccia agli isolazionisti del Tea Party, il dibattito più acceso è tra i centristi del Partito Repubblicano, dove i vari candidati stanno cercando di trovare la loro posizione fra le esigenze dell’economia, i teatri di guerra e la tettonica a placche della politica mediorientale originata dalla primavera araba. Mitt Romney, che il Council on Foreign Relations nel 2008 considerava “sostanzialmente allineato con la politica di George W. Bush”, aveva iniziato a muovere i suoi passi elettorali con una certa cautela. Lasciava che fosse l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, a fare la parte del falco neoconservatore, mentre lui, nel suo tipico stile attendista, cercava di non alienare le sponde più moderate dell’elettorato. Quando Pawlenty diceva che “la cosa peggiore che il Partito Repubblicano può fare è abbandonare la leadership americana nel mondo”, Romney cercava di rimanere sul vago, senza esporsi troppo. L’uscita di Pawlenty dalla corsa repubblicana lo ha però costretto a giocare a carte scoperte; così, nell’annunciare un grande discorso sulla politica estera, l’ex governatore del Massachusetts ha presentato il team “ombra” della sicurezza nazionale, ovvero il gruppo a cui affiderebbe la politica estera se venisse eletto alla Casa Bianca. Ci sono cinquanta nomi, fra i quali Robert Kagan, Michael Chertoff, Eliot Cohen, Michael Hayden, Cofer Black, Paula Dobriansky, Eric Edelman, Walid Phrares, Dan Senor e Dov Zakheim. Si tratta di una specie di rimpatriata di uomini di Bush, attinti dall’epicentro del pensiero neoconservatore, come l’American Enterprise Institute e zone limitrofe.

Romney è abbastanza accorto da mischiare sapientemente i falchi con le colombe, ma l’immagine che emerge è senz’altro quella di un ritorno alla politica muscolare, interventista, sostenitrice della “Freedom Agenda” e che ha il coraggio di mantenere alto il livello di spesa del Pentagono. Con questa scelta strategica Romney sembra sposare le visioni del portavoce non ufficiale della politica estera conservatrice nel dopo-Bush, il senatore Lindsey Graham, instancabile avvocato della causa americana nel mondo.

Al governatore del Texas, Rick Perry, tocca la parte del “moderato”. Non avendo confidenza con i temi globali, Perry punta sulla via dell’ambiguità: da una parte dice che “l’America non dovrebbe sottostare alla temerarietà dei suoi generali” e che “è fondamentale la coesione con gli alleati”; dall’altra invoca il diritto dell’America a intervenire “quando è necessario”. Come Romney, anche il governatore texano è uno strenuo difensore di Israele e durante i giorni concitati della richiesta palestinese presso l’ONU ha improvvisato a New York un incontro con la sezione americana del Likud. In quell’occasione ha schiaffeggiato l’approccio dell’attuale amministrazione al processo di pace, confermando quello che il suo avversario mormone aveva già detto: “Obama vuole spingere Israele sotto l’autobus”. Certo Perry non condivide in pieno la visione di Michele Bachmann, altra inflessibile supporter israeliana, che attribuisce a Obama anche la “colpa” della primavera araba: “La debolezza dell’America ha aperto la strada alle manifestazioni”. Ed è proprio il giudizio ex post sulla primavera araba uno dei campi di battaglia decisivi per le varie anime del partito: da una parte, c’è chi vede le insurrezioni come il felice parto dopo le “doglie” del Medio Oriente di cui parlava Condi Rice; dall’altra, c’è chi teme che l’ondata democratica rompa per sempre quel fragile patto di stabilità dell’area fatto di dittatori e satrapi politicamente affidabili.

È dunque sulla “economics of foreign policy” e sulle molte implicazioni della primavera araba che l’atomizzato Partito Repubblicano sta cercando faticosamente di prendere le misure.